728 x 90

Il mondo fa paura. La paura fa il mondo

Il mondo fa paura. La paura fa il mondo

Abstract

La tesi che cerco di sviluppare in questo articolo è che la paura, il fenomeno che affrontiamo in questo numero della rivista è direttamente collegata all’irrigidimento dei nostri confini corporei, mentali, relazionali e sociali. Cercherò di dimostrare che la cultura europocentrica ha dato particolare valore alla costruzione di identità, personali, familiari, sociali, politiche Etc. ma per costruire un’identità dobbiamo cristallizzare il processo di identificazione e alienazione, indispensabile per adattarci creativamente ad un ambiente complesso e difficile. Una grande responsabilità per la creazione di identità cristallizzate è la cultura patriarcale con la sua logica di dominanza e possesso. Per affrontare questo tema partirò da un fenomeno tragicamente legato al patriarcato: la guerra. Da essa passeremo all’esperienza del trauma e del danno, affrontando l’importanza dei confini e la crisi dell’attuale sistema identitario. Arriverò infine ad un’ipotesi di intervento basato sulla capacità di riconoscere ed alienarci da soluzioni non più adatte alla situazione che stiamo vivendo. Presupposto indispensabile per identificarci con la nostra prossima tappa evolutiva.

La paura è l’emozione che ci fa comprendere immediatamente, cioè senza la mediazione del pensiero, che stiamo incontrando un pericolo. Il pericolo è un evento che piò causarci sofferenza, danno, trauma.

Per parlare di paura, sofferenza, danno, trauma come esperienze umane in questo periodo storico ho deciso di partire non dalla psicoterapia ma dall’esperienza della guerra, tornata prepotentemente in primo piano nella nostra realtà Europea.

Il conflitto che si sta consumando nel cuore dell’Europa sta appesantendo le nostre coscienze anche per come ripropone esperienze, interpretazioni, prese di posizioni, che forse molti di noi pensavano superate e appartenenti al secolo passato.

Sono molto colpito da come si sta affrontando il tema della guerra e le azioni sviluppate da tutte le parti coinvolte dall’evento.

Cercherò il più possibile di distinguere gli eventi osservabili, la realtà condivisa su cui cioè tutte le parti in causa possono concordare, dai vissuti e dalle interpretazioni.

L’evento da cui partiamo è l’ingresso delle forze armate russe nel territorio ucraino. Da questo evento si dipanano interpretazioni e vissuti molto diversi. La Russia l’ha definita operazione speciale, motivata dalla volontà di proteggere le minoranze russe e filo russe presenti in quei territori dalle violenze e dalle oppressioni perpetrate nei loro confronti dalle milizie neo naziste appoggiate dal governo Ucraino. A questa si aggiunge il voler porre un freno all’espansione della NATO sempre più “attorniante” i confini della Russia.

Da parte Ucraina, ed anche della Unione Europea e degli Staiti Uniti, quest’azione è stata definita un’invasione, cioè un atto di guerra non giustificabile in alcun modo e comprensibile solo con la volontà della Russia ed in particolare di Putin di riallargare i confini della Russia annettendosi territori che una volta facevano parte dell’Unione Sovietica. Affermando di conseguenza il pieno diritto dell’Ucraina di difendersi in ogni modo e garantendo il pieno appoggio attraverso l’invio di armi e tecnologia ed altre forme di sostegno necessarie pe reggere la guerra.

Le motivazioni che ho illustrato sono una semplificazione, ma le ho portate solo come esempio, molto noto, che in ogni conflitto entrambe le parti vantano importanti motivazioni con cui giustificano le loro azioni; come la storia ci ha insegnato, in tutte le guerre, tutte le nazioni in guerra avevano Dio dalla loro parte.

L’evento che osserviamo e che suscita nella maggior parte di noi europei paura, indignazione e rabbia è che un paese grande e potente stia usando, le armi, cioè la forza e la violenza per ottenere da un paese più piccolo qualcosa che non riesce ad ottenere con il dialogo e la diplomazia.

Questa esperienza, che continua ad essere frequente in gran parte del pianeta, pensavamo e speravamo che non si sarebbe più verificata all’interno dell’Europa.

Questo evento ha contribuito a creare un “noi” che comprende l’Ucraina, quasi tutto il resto dell’Europa e gli Stati Uniti e un “loro”, cioè i russi.

Qui per me nasce una prima domanda importante: la Russia o la popolazione russa?

E vogliamo difendere la popolazione ucraina o l’Ucraina?

Provo un profondo dolore per tutti gli esseri umani che sono morti e che hanno sofferto e stanno soffrendo in questa guerra, come in tutte le guerre, ma non riesco ad empatizzare con la richiesta di morire per difendere la patria.

Speravo che questa richiesta non venisse più fatta.

Il termine patria deriva da pater, padre, così come patriarcato e patrimonio. La terra dei padri, il dominio dei padri, i beni dei padri.

Il patriarcato è il dominio del più forte su tutti gli altri e altre. Il maschio dominante acquisisce il diritto di ingravidare le femmine. Il maschio dominante è il più forte tra gli altri maschi e domina su di loro. Ha le armi migliori, protegge e accumula beni che gli vengono dati in cambio della protezione e del cibo che procura e dei beni che usa per costruire case e tutto ciò che è necessario. Diventa il patriarca, accumula patrimonio. Nella terra che lui governa si parla la sua lingua, perché bisogna capire i suoi ordini e le sue richieste e quella diventa la patria di chi vi nasce e ci vive e condivide quella lingua.

Ancora oggi viviamo in paesi in cui domina il patriarcato. Il dialogo e la democrazia sono tentativi di bilanciare l’uso della forza per determinare decisioni e scelte. Ma i detentori dei patrimoni sono comunque quelli che detengono il potere e hanno la forza di influenzare e condizionare i governi.

Molte persone oggi hanno dubbi sull’effettiva esistenza della democrazia nei paesi europocentrici, non votano alle elezioni e probabilmente condividono una massima di Mark Twain: “Se il voto servisse a qualcosa non ce lo farebbero fare”

Il patriarcato è prevalentemente maschile, ma non necessariamente. Anche le donne possono abbracciare l’ottica patriarcale.

La differenza tra patriarcato e matriarcato non è nel fatto che nel primo abbiano più potere gli uomini e nell’altro le donne.

La differenza è che l’uno parla di possesso di dominanza e della forza necessaria per guadagnare e mantenere il possesso.

L’altro parla di partecipazione, di unione e dell’energia necessaria per rendere possibile questa unione e che questa unione sia creativa.

Io posso farmi un patrimonio da solo, ma non posso farmi un matrimonio da solo.

Ora, cos’ha tutto questo a che fare con esperienze come il pericolo, il danno o il trauma?

Ciò che determina un trauma è l’incontro con un’esperienza invasiva e soverchiante, che in quanto tale non può essere oggetto di contatto, nel vivere la quale non trovo in me e nell’ambiente intorno le capacità ed il sostegno per rifiutarla.

Il trauma è quindi legato ai confini ed alla nostra possibilità di salvaguardarli utilizzando le nostre risorse e/o il sostegno ambientale.

Ma se è legato ai confini allora il trauma è anche legato al processo di identificazione e di alienazione.

Per il mistico che si identifica solo con il proprio spirito, la propria anima o la propria fede, subire segregazione, violenze e mutilazioni corporee non causa traumi, ma al contrario lo può fare sentire più forte e più integro.

Per le persone “ordinarie”, come noi, identificate con la nostra corporeità, la segregazione, la tortura, lo stupro ed altre forme di violenza, diventano possibili traumi.

Per chi espande i propri confini alla propria casa o alla propria auto, cioè le sente parti di sé, un furto con scasso o un incidente d’auto, anche senza conseguenze per la persona può diventare un evento traumatico.

Se i nostri confini diventano i confini della nostra “patria” ecco che un’invasione militare che non riesco a respingere diventa fonte di traumi.

Ad esempio anche l’arrivo di migranti, che non ho invitato e temo possano minacciare ciò che possiedo, il mio “patrimonio”, possono attivare quei meccanismi di emergenza che appartengono alla difesa dai traumi.

Proviamo ad immaginare una cosa assurda.

Cosa sarebbe potuto accadere se il governo ucraino, invece di chiedere od anche obbligare i propri abitanti a combattere e morire, per difendere la patria, le case e tutte le proprietà, avesse portato via tutte le persone, tutti gli abitanti, preoccupandosi solo di salvaguardare gli esseri umani? Se avesse distrutto tutte le case, le strade, i ponti, le fabbriche, lasciando agli invasori solo macerie e nessun patrimonio? Se l’unione europea e gli USA, invece di mandare migliaia di miliardi di euro in armi, li avessero mandati per risarcire le persone di quello che avevano abbandonato? Cosa sarebbe successo se una guerra fosse stata combattuta senza morti? Senza chiedere ad esseri umani di morire per difendere case, fabbriche, ponti, centrali elettriche. Se si considerasse come unico bene inalienabile e non spendibile la vita, in tutte le sue forme e non gli oggetti, le cose e i beni?

Per quello che sappiamo quei beni sono stati distrutti comunque e i territori contesi sono cumuli di macerie, migliaia di esseri umani sono morti e stanno morendo. I danni all’ambiente e alle altre forme di vita sono “danni collaterali”. Migliaia di miliardi di euro sono stati spesi in armi e munizioni e tante altre migliaia di persone hanno sofferto e si porteranno traumi per molto tempo.

Finché noi continueremo a vivere e sostenere la visione e i sistemi patriarcali le guerre si continueranno a fare per i patrimoni e non per proteggere esseri viventi.

Finché sosterremo la visione patriarcale: la violenza, la sopraffazione e la legge del più forte, continueranno

Intendiamoci, il patriarcato non è solo violenza e sopraffazione. Lo sappiamo benissimo. Il patriarca si prende cura e vuole anche il bene dei suoi figli e di sua moglie o marito ed eventuali e probabili amanti, purché li/le senta suoi; anche per questo ha potuto affermarsi nel tempo ed anche per questo è ancora apprezzato.

In un seminario che ho fatto recentemente ed in cui, come faccio da un po’, parlavo delle conseguenze del patriarcato, una donna, tra l’altro una psichiatra e psicoterapeuta affermata, ha espresso con forza il suo apprezzamento per il patriarcato, ha detto: “a me che l’uomo sia forte, potente, che comandi e si prenda cura di me sentendomi più debole mi piace. Mi piace sentire che è vulnerabile alla mia seduzione e alla mia bellezza. Mi piace sentire che sono in grado di sedurlo e ottenere così i vantaggi del suo potere. Tutto ciò mi piace”, non si tratta di un caso raro e isolato.

Il patriarcato è anche comodo, perché la responsabilità di aumentare il patrimonio, della riuscita dei progetti di vita legati alle disponibilità economiche sono fondamentalmente di chi comanda, ovvero del patriarca. Se lui/lei fallisce io non ho colpe, posso lamentarmi ed eventualmente, se ne ho la forza alleandomi con altri insoddisfatti, eliminarlo, sostituirlo con un nuovo patriarca più capace.

Il patriarcato sostiene l’individualismo, le relazioni non paritarie, la relazione grande – piccolo.

Il patriarcato sostiene una relazione allucinatoria io – l’altro e per allucinatoria intendo separata, priva di collegamento, in cui, se necessario, posso far soffrire l’altro senza che questa sofferenza danneggi anche me.

La Gestalt ha attuato su questo punto una rivoluzione epistemologica appoggiandosi sulla fenomenologia rendendola poi ancora più radicale.

Molti fenomenologi non capiscono perché noi parliamo di organismo/ambiente e non di individuo/mondo. Da molti questo è visto come una svalutazione del processo di coscienza che permette all’individuo di esperire la propria relazione col mondo.

Il punto è che prima di essere un individuo cosciente, noi siamo un organismo indissolubilmente parte dell’ambiente. Ecco perché consideriamo un errore porre una “e” tra organismo ambiente ed ecco perché la terapia della gestalt si è inventata questo concetto così difficile da comprendere, perché così alieno alla cultura patriarcale che ha formato il linguaggio che noi usiamo: “il confine di contatto”. Un confine che contemporaneamente separa ed unisce. Un confine che non esiste come dato empirico misurabile in natura[1], perché è un prodotto della nostra coscienza che ci permette di diventare consapevoli ed assumerci la responsabilità di come continuamente ed inevitabilmente scambiamo con l’ambiente in cui siamo immersi, creando ciò che noi chiamiamo “il campo organismo/ambiente”.

Il concetto di confine di contatto non è comprensibile all’interno di un pensiero patriarcale perché questo è un pensiero individualista che concepisce l’individuo separato e dominante nei confronti dell’ambiente.

Mettere in crisi il sistema patriarcale vuol dire mettere in crisi il concetto di dominanza e vuol dire anche mettere in crisi il sistema identitario, perché dominanza ed identità procedono insieme.

L’identità è una forma di dominanza perché definisce criteri fissi, spesso considerati oggettivi, che caratterizzano ambiti di appartenenza nei quali, una volta che ne siamo entrati a fare parte è quasi impossibile uscirne.

La Terapia della Gestalt parla di identificazioni non di identità e Perls nel suo ultimo manoscritto pubblicato: “Psicopatologia della consapevolezza”, definisce qualsiasi identificazione cristallizzata come un’identità, patologica[2].

Il processo di identificazione e di alienazione è una funzione dell’io, serve a favorire l’affermarsi di nuove soluzioni più funzionali alla crescita dell’individuo all’interno di un determinato contesto ed in un certo tempo, abbandonando soluzioni del passato che oggi sono disfunzionali alla crescita.

L’identità non è altro che una o un insieme di identificazioni che si sono affermate efficaci per la crescita di individui in un determinato contesto ed in un determinato tempo, che vengono poi fissate, cioè definite immutabili.

Le identità afferiscono alla sicurezza, alla stabilità e alla conservazione

Identificarsi con nuove soluzioni afferisce all’eccitazione, alla crescita e all’evoluzione.

Il processo di identificazione e di alienazione sviluppa la capacità di identificarsi pienamente, creare un’identità e mantenerla finché questa è nutriente e ci fornisce un terreno solido su cui appoggiarci per costruire e la capacità di abbandonarla, di alienarci da essa, quando una novità assimilabile, eccitante e nutriente emerge alla nostra consapevolezza, chiedendoci di muoverci e di cambiare.

Sono affascinato da come il movimento LGBTQ+ sia in questo momento, almeno nel mondo europocentrico, oggetto di dibattiti, prese di posizione, scontri, approvazioni e condanne.

Nato come “casa” per coloro che si sentivano discriminate/i da una società con un’identità di genere biologicamente determinata in temini binari: maschio – femmina considerata “naturale”, cioè oggettiva[3], un orientamento eterosessuale anch’esso considerato naturale e quindi sano e una cultura di coppia fortemente monogamica o al massimo poliginica[4], è ora diventato, forse anche suo malgrado, un movimento che mette fortemente in discussione tutti i sistemi identitari.

Pensatori come Paul Preciado[5] contestano anche il riconoscersi in identità come “omosessuale”, affermando proprio che ogni identità fissa prepara la strada alle discriminazioni.

Tanto più abbiamo identità cristallizzate tanto più il rischio dell’invasione, il pericolo del danno e del trauma e quindi la paura, aumenta.

Un fenomeno in crescita nella nostra società europocentrica è che l’età media delle persone che vengono in terapia o in counseling sta scendendo. Oggi avere pazienti di 20 o 18 anni è frequente, fino a pochi anni fa era occasionale.

I/le giovani sono le prime a sentire che le identità che la cultura, la famiglia e l’abitudine tende a fornire loro sono sempre meno sostenenti.

Anche i/le bambini/e hanno sempre più spesso dubbi identitari o forse i dubbi identitari di quelle fasce di età oggi vengono ascoltati mentre, fino a poco fa minimizzati o ignorati[6].

È questo un pericolo? Il movimento LGBTQ+ è la punta dell’Iceberg che segnala la dissolutezza crescente ed il decadimento della nostra cultura europocentrica?

Da migliaia di anni la visione patriarcale ci ha abituato a sentirci circondati da nemici. Abbiamo fondato l’Unione Europea ma basta una divergenza tra due governi perché la logica del nemico riaffiori. Ci sono sempre nuovi pericoli da affrontare e sconfiggere. Perché il modello patriarcale è quello militare: non bisogna arrendersi, bisogna lottare e sconfiggere il nemico. Sia che siano esseri umani o eventi naturali o pandemie o culture: c’è sempre un nemico sui confini.

Se questi confini invece di essere rigidi o pieni di buchi, fossero elastici, mobili, adattabili? Se invece di identità cristallizzate avessimo identificazioni in grado di sostenere il contatto con l’altro?

Se l’Ucraina fosse un popolo invece che un luogo?

Le persone che soffrono e che vengono in psicoterapia o in counseling non vengono perché hanno dei problemi, ma perché hanno delle soluzioni che hanno loro permesso di sopravvivere in un ambiente difficile e che oggi non sono più efficaci o hanno costi troppo elevati per essere sopportati. Ciò che le fa soffrire è che queste soluzioni sono diventate delle identità, che i loro confini si sono irrigiditi e magari questa rigidità li rende fragili o pieni di crepe o addirittura li fa crollare e le lascia esposte, nude, senza pelle.

Credo che il nostro compito, in questa epoca storica, sia di sostenere le persone a confrontare la paura. Di portare visioni alternative a quelle dei nemici sui confini. Attraverso l’esperienza di incontri basati sull’interesse, la mancanza di giudizio, l’esserci autenticamente con l’altro/a e tutta la pratica della Terapia della Gestalt, possiamo fare sperimentare una differenza importante. Da una parte l’abitudine nell’incontro col mondo a chiudere i propri confini, bloccare il respiro e irrigidire il proprio corpo e il proprio pensiero, difenderci e attaccare. Dall’altra la novità di essere ascoltati ed ascoltare dandoci il tempo di sentire. Attribuendo valore alle sensazioni e alle emozioni. Sviluppare la consapevolezza che l’altro/a è difficile perché diversa/o ma questo non lo/la rende necessariamente un/a nemico/a da combattere.

La paura non ci dice che quello che c’è fuori è un pericolo, ma che noi lo consideriamo tale.

Non vuol dire diventare ingenui come bambini/e. Al contrario, vuol dire sviluppare più attenzione, più ascolto, più sguardo. Con la consapevolezza che tutte le nostre certezze, le nostre convinzioni, le nostre sicurezze, diventano pregiudizi che rendono il mondo più pericoloso.

Morihei Ueshiba, il fondatore dell’Aikido, considerata una delle più efficaci arti marziali per la difesa personale, raccontava spesso un aneddoto che terminava con una domanda: “Due cinture nere di Aikido stanno viaggiando nella metropolitana di Tokio. Ad un certo punto sale un ubriaco che comincia ad essere molesto ed aggressivo. Uno delle due cinture nere si bilancia bene sulle gambe e si mette in posizione di guardia pronto a neutralizzare un eventuale attacco. L’altro avanza verso l’ubriaco, lo prende sotto braccio dicendogli: “Mi spiace che tu sia così arrabbiato. Vieni sediamoci insieme e raccontami cosa ti è successo”. Secondo voi chi ha compreso cos’è l’Aikido?”

[1] Almeno per le nostre conoscenze tecnico – scientifiche attuali

[2] F. Perls – Psicopatologia della Consapevolezza – Astrolabio . 2023

[3] Questa è una caratteristica propria delle identità cristallizzate di essere considerate naturali, oggettive da chi le fa proprie.

[4] Erroneamente si parla di poligamia, ma questa prevederebbe sia che un uomo potrebbe avere tante donne (poliginia) sia che una donna potrebbe avere tanti uomini (poliandria), eventualità, questultima, non ammessa dalle culture patriarcali.

[5] P. Preciado – Manifesto Controsessuale – Fandango Libri – 2019

[6] Sara Buchard – Sessuologia della Gestalt – Franco Angeli – 2022

Ti potrebbe interessare anche...