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La co-creazione e il superamento della “cultura della dominanza”

La co-creazione e il superamento della “cultura della dominanza”
Britons are never more comfortable than when talking about the weather.John Smith, Flickr.

F. (giovane paziente, (24 anni) – Lei sa dirmi che senso ha vivere in questo mondo?

M. (vecchio terapeuta- 64 anni) – No, ma se mi dice qualcosa in più forse possiamo scoprire che senso può avere per lei vivere in questo mondo

F. – Ho ventiquattro anni, sono parcheggiato in un’università che parla di un mondo che non è quello che c’è là fuori e che alla fine mi darà una laurea con cui non troverò lavoro, almeno qui in Italia. Mi sento una merda perché, anche se qui non c’è lavoro, vivo comunque nella parte ricca del mondo che sfrutta l’Africa e poi vuole ributtare in mare quelli che da lì scappano perché non hanno neanche l’acqua da bere.  Mio padre è un libero professionista e lavora 12 ore al giorno e probabilmente dovrà farlo fino a quando crepa viste le prospettive di lavoro di noi figli poi avrà una pensione ridicola. Sono terrorizzato dal mettere incinta la mia ragazza e mettere al mondo un bambino in un mondo così. Che cazzo dovrei fare ?

M – (dopo un sospiro) – Non lo so, ho 64 anni e lavoro 12 ore al giorno e probabilmente dovrò farlo finché crepo o un ictus mi renderà un vegetale, perché i miei figli faticano  a trovare lavoro e io avrò una pensione ridicola. Sto male ogni volta che vedo qualcuno che chiede l’elemosina e ce ne sono ormai tanti, e mi sento uno schifo quando leggo cosa stiamo ancora facendo all’Africa e che qui a Torino una ragazza è stata aggredita per strada perché nera. Eppure continuo a sentire che la vita sia bella e che valga la pena di essere vissuta. Mi sa che uno di noi due è molto confuso e non è detto che sia lei.

Questo è uno scambio avvenuto all’interno di una seduta. Una delle tante in cui le persone denunciano un’angoscia di vivere in senso sartriano. La perdita di senso della vita e del vivere in genere.

Ciò che loro portano come motivazione per questa perdita di senso è, spesso, molto condivisibile, come nello scambio sopra riportato… quindi dov’è la patologia? Non c’è nessuna esagerazione, nessun isolamento, nessuna perdita di confini, nessuna ossessione o fobia, con quale sofferenza possiamo dialogare (pathos – logos) ?

Mi sono fatto l’idea che la perdita di senso del mondo contemporaneo e della nostra vita in esso vada di pari passo con la perdita di un’illusione: la nostra capacità di dominare la vita.

Il concetto di dominanza è ostico agli psicoterapeuti, perché lo prendiamo dalla filosofia, che comunque resta la nostra “casa madre”. Lo ritroviamo ad esempio negli scritti di Vattimo, Rovatti, Dal Lago[1]  che, sviluppando il loro “pensiero debole”, hanno evidenziato la crisi del “pensiero forte”, il pensiero dominante.  Lo troviamo in Nietzsche quando afferma che “DIO è MORTO” , che il pensiero assoluto, la Verità con la V maiuscola, il pensiero dominante (Dominus = Signore) è finalmente morto.

In Nietzsche c’è una scintilla di speranza nel vedere la morte di un Dio assoluto e onnisciente in presenza del quale noi possiamo solo chinare il capo. La dominanza è presente nel Socrate di Platone, e consiste in quella forza di pensiero che apparentemente invita al dialogo, ma con la sicurezza che alla fine saremo d’accordo con lui perché la sua logica è inattaccabile e la verità è una.

I fondatori della Gestalt non hanno mai parlato di  pensiero dominante, però, fin dagli inizi,  hanno messo fortemente in crisi la figura dell’esperto ed hanno abbandonato il pensiero Freudiano, intriso di metafisica, che interpreta  l’altro trovando un senso al di là dell’esperienza concreta e delle percezioni sensoriali, un senso appunto metafisico.

Si sono così rivolti alla psicologia della percezione, la Gestalt, al contatto figura/sfondo e alla fenomenologia, rendendo così  centrale nel lavoro terapeutico il circolo ermeneutico.

Il circolo ermeneutico, sviluppato da Heidegger, propone una forma di lettura degli eventi basata non sull’interpretazione cognitiva da parte del professionista e tantomeno su un’interpretazione metafisica,  ma  sul  vissuto sensoriale ed emotivo, sia del terapeuta che del paziente; tale vissuto, combinato con l’osservazione fenomenologica,  viene continuamente sottoposto alla verifica dell’altroin una circolarità che rifiuta le conclusioni giudicanti e sostiene la curiosità, in un continuo interrogarsi ed interrogare fino all’emergere di una comprensione condivisa e co-costruita in cui è l’esperienza attuale a dare  un senso  al mondo. In altre parole, se durante una seduta una paziente porta la sua rabbia con il datore di lavoro, ad esempio, non le offrirò una comprensione dell’evento basata sulla mia conoscenza di lei e sulle chiavi interpretative offertemi dalla psicopatologia, ma piuttosto le rimanderò ciò che suscita in me, il modo in cui si è portata, l’effetto su di me delle sue espressioni e posture,  le mie sensazioni, emozioni e collegamenti, chiedendole poi di rimandarmi l’effetto su di lei di ciò che le ho appena detto, di come gliel’ho detto etc. Procedendo in questo modo , lascio che il senso di ciò che sta accadendo col suo principale si sviluppi un po’ alla volta proprio dall’attenzione alla circolarità dell’interazione con l’altro e di come lei continuamente influenzi l’altro e non ne sia solamente influenzata.

Tornando al tema da cui siamo partiti, la ricerca di un senso esistenziale, possiamo riconoscere che oggi stiamo continuamente assistendo al crollo delle certezze. Non ci sono più scelte professionali che garantiscano una futura occupazione. I giovani studiano per professioni che oggi sono ricercatissime, ma nel tempo in cui concludono il ciclo di studi, possono diventare già superate. La politica è in continuo cambiamento. Le caratteristiche del mondo politico che fino a pochi anni fa sembravano imprescindibili, oggi sono obsolete e superate. Gli equilibri geo- politici e macroeconomici sono fluttuanti, per non parlare dei cambiamenti climatici.

Qualche anno fa partecipai ad  una tavola rotonda a Firenze insieme al Prof. Galimberti, lui prese spunto dal suo libro “ L’ospite inquietante”, per affrontare proprio questi cambiamenti;  portò l’esempio di come per lui, da giovane, le prospettive fossero certe: studiare, università, lavoro e  di come oggi[2] tutto fosse saltato e il rischio fosse  quello del nichilismo.

Ricordo anche che in quell’occasione il Prof. Galimberti concluse dicendo “non chiedetemi la speranza, questo chiedetela a loro”, indicando noi due psicoterapeuti seduti con lui al tavolo insieme  ad un regista teatrale.

In effetti questa è la nostra peculiarità in quanto psicoterapeuti e counselor, ci appoggiamo agli studi di altri: filosofi, psicologi, scienziati, per sviluppare una pratica che ci sostenga  ad  adattarci creativamente all’ambiente che ci circonda. Ma quale pratica può dare un senso alla mancanza di senso ?

La pratica della terapia della Gestalt si basa sul dare valore a ciò che c’è e sulla capacità di rendere assimilabile la novità. Perché il mondo è in continua mutazione e noi incontriamo continuamente novità, ma solo la novità assimilabile ci nutre, ci trasforma, ci fa crescere rendendoci in grado di vivere con soddisfazione ed eccitazione nel mondo che ci circonda.  Noi esseri umani dobbiamo sviluppare la capacità di rendere assimilabili le novità che incontriamo e/o, se non ci riusciamo, di rifiutarle e, se le novità non assimilabili sono dilaganti in quell’ambiente,  possiamo scegliere di cambiare ambiente, di andarcene.

Nella pratica, questo lo facciamo sostenendo la persona a reggere livelli di ansia sempre crescenti.

L’ansia è un blocco della respirazione che si verifica di fronte all’attesa di uno o più  eventi futuri che temiamo possano essere dolorosi e non dominabili (sempre dominis, il dio onnisciente che è in grado di governare il mondo). L’apnea è un modo per aumentare la nostra concentrazione su un evento e la nostra capacità di dominarlo, diminuendo le sensazioni che possono distrarci. Solo che se l’evento è atteso nel futuro, è un “venendo” (una probabilità) e non un’attualità (un “ avvenuto”) , la sospensione del respiro troppo prolungata nel tempo diventa una minaccia alla nostra sopravvivenza: questo è ciò che chiamiamo ansia. In altre parole l’ansia è un segnale di allarme che ci dice che stiamo perdendo il controllo sul mondo che ci circonda, da cui consegue il tentativo di darci sostegno dominando le nostre sensazioni ed emozioni, la nostra corporeità, pensando così di riuscire poi a dominare il mondo esterno.

Cosa  intendiamo noi terapeuti dicendo che sosteniamo la persona a reggere livelli di ansia sempre crescenti ?

Chiediamo alla persona di utilizzare questo segnale di allarme in modo diverso, rinunciando al tentativo di dominare la paura dell’ignoto, cioè di tutto ciò che non è ancora qui e ora, a favore della capacità di respirare e sentire di più invece che di meno; chiediamo di dare valore all’ansia invece di volerla scacciare, annullare,  combattere,  fuggire con varie strategie (dalle interruzioni di contatto, agli attacchi di panico, alla depressione, fino ad arrivare a possibili agiti.

Queste non sono richieste tecniche, ma esistenziali, perché noi praticanti siamo li con la persona vivendo la stessa esperienza: incontrare l’ignoto che ci spaventa senza cercare di dominarlo, perché sforzandoci di dominare ciò che non è dominabile, aumentiamo la nostra paura di morire e diminuiamo la nostra capacità di prendere sostegno nell’ambiente.

Per me una delle cose più importanti che ha fatto Perls è stata proprio di mettere in crisi la figura dell’esperto. Molti miei colleghi dissentono. Dicono che è manipolatorio perché in realtà noi siamo degli esperti della relazione e le persone vengono da noi perché abbiamo delle competenze, altrimenti perché dovrebbero venire se non siamo in grado di aiutarle ?

Dobbiamo metterci d’accordo su cosa intendiamo per esperto: normalmente per esperto si intende un professionista che ha accumulato sufficienti studi ed esperienze per poter affrontare un problema trovando una soluzione soddisfacente. In altre parole l’esperto riesce ad essere dominante rispetto al problema e diminuire le incertezze.

Questa è la figura che Perls ha messo in discussione.

Recentemente ho vissuto un’esperienza in un corso di formazione. Stavo facendo  un lavoro terapeutico con un’ allieva, pratica che fa parte del nostro modo usuale di fare formazione. Eravamo insieme in un campo depressivo, una situazione cioè caratterizzata da vissuti di impotenza, inutilità e mancanza di speranza  e ad un certo punto mi sono sentito in difficoltà.

Sentivo che non riuscivo a stare con lei e mantenere “la guida” del gruppo allo stesso tempo, e ho dichiarato questa mia difficoltà chiedendo aiuto ai partecipanti.

E’ successa una cosa importante : nessuno mi ha veramente creduto.

Dopo, durante i feedback ed i commenti sul lavoro, molti hanno espresso il loro disaccordo col mio lavoro, mi hanno criticato, hanno dichiarato di non aver creduto che io fossi veramente in difficoltà e di non aver preso neanche in considerazione la possibilità di venirmi in aiuto.

Criticare “dopo” resta all’interno di un’ottica di dominanza e di sicurezza : non avresti dovuto fare questo, avresti dovuto invece fare quest’altro (che noi sappiamo e che quindi non è ignoto). Venire in mio aiuto, unirsi a me nel lavoro, avrebbe significato entrare con me nello sconosciuto, accettare l’insicurezza di non sapere quale sia “la cosa giusta da fare o da dire”,  correre il rischio di co-creare insieme.

L’opposto della dominanza non è la sottomissione, ma la co-creazione.

Noi, con la nostra formazione ed esperienza, sviluppiamo la capacità di reggere l’ansia dell’ignoto senza cadere nella paura di morire, e di restare insieme all’altro mentre fa altrettanto, per tutto il tempo necessario perché la soluzione migliore per lui/lei alla difficoltà/ sofferenza che sta vivendo, emerga nel suo ambiente. Finché il paziente non farà/faremo, un’esperienza di essere sé, che non è un’esperienza individuale ma di profonda unione col mondo in cui  è immerso. Un’esperienza di fede che, come ha detto Paul Goodman, se farò il prossimo passo, la terra sarà li a sostenermi

Noi siamo dominanti quando vogliamo trasformare il mondo senza accettare contemporaneamente di essere da esso trasformati. Siamo dominanti tutte le volte che, durante un confronto o un conflitto, parliamo dell’altro senza contemporaneamente parlare di noi. Siamo dominanti tutte le volte in cui l’obiettivo diventa più importante del processo, dell’essere con .

Sia chiaro, non sto condannando la dominanza come fenomeno. Se vado da un medico piegato in due dal dolore, voglio che riesca a dominare la situazione, diagnostichi velocemente la colica renale e mi somministri la terapia più efficace. Ci sono situazioni in cui essere dominanti è la risposta più efficace.

Non bisogna neanche confondere la dominanza con l’aggressività.

Talvolta mi sono sentito dire, nel lavoro, che anch’io sono dominante perché sono aggressivo, diretto, a volte direttivo. Parliamo di fenomeni molto diversi tra loro che però possono combinarsi.

L’aggressività, anche la direttività, se privi di dominanza, sono fenomeni di contatto, sono cioè sostenuti da un’intenzionalità di contatto.  Il contatto è sempre uno scambio ed io non posso decidere cosa dell’altro mi influenzi e cosa no, o controllare cosa di me influenzerà l’altro e cosa no.

Questo è il lavoro del confine di contatto in azione, cioè è il lavoro del sé.

Aggredire vuol dire mettere energia, forza, decisione per modificare l’ambiente nella direzione di ciò che voglio.  VOGLIO è una bellissima parola, comporta chiarezza, orientamento, sentire i propri bisogni e sensazioni. Uno dei più grossi errori educativi è insegnare ai bambini a non dire voglio (“L’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re”),  ma dire “vorrei”, che è un condizionale, quindi vuol dire che la mia chiarezza, il mio sentire, è possibile solo a certe condizioni che sono determinate dall’esterno. Il problema non è il voglio, ma l’idea che se voglio qualcosa allora devo ottenerla, altrimenti sarò frustrato. Questa è dominanza. Insegniamo ai bambini ad essere dominanti dando loro il messaggio implicito che potranno dire voglio solo quando saranno sicuri di avere la forza di ottenere ciò che vogliono. Il voglio, invece, mi dà la chiarezza e l’orientamento, mentre l’aggressività mi dà la forza e gli strumenti per agire. Se tutto questo viene sostenuto da un’intenzionalità di contatto, se nello sfondo dell’aggressività c’è la sessualità, l’amore e il bisogno di unione che è un bisogno fondamentale di noi esseri umani anche se spesso ci spaventa,  alla fine, quello che otterrò, sarà giusto per me e per chi mi è intorno, anche se potrà essere diverso da cosa avrei voluto all’inizio. E questo non perché “sono sceso a compromessi”, “mi sono accontentato”, ma perché sarò cambiato, magari di poco, ma sarò una persona diversa dall’inizio e lo stesso sarà per l’ambiente intorno a me. Alla fine otterrò quello che voglio, ma il “voglio” finale potrà essere diverso da quello iniziale. Questo è il processo di contatto.

La dominanza vuole evitare tutto questo. Essa cerca la Verità, la Giustizia, la Sicurezza della validità del pensiero. La dominanza cerca il confronto dialettico per arrivare ad una decisione che poi deve essere mantenuta con coerenza e determinazione.

Paolo Quattrini, uno dei terapeuti della gestalt più aggressivi che io abbia incontrato, suole dire “Decidete e se poi vi accorgete che non vi va bene, s-decidete”. Un’affermazione del genere mette in crisi la dominanza.

La dominanza ci porta a voler dare senso a ciò che ci circonda e alla nostra vita, il contatto ci rende parte del  senso del continuo mutare del noi/mondo.

Concludo sottolineando il paradosso in cui ci troviamo lavorando sulla co-costruzione e non sulla dominanza. Tornando all’esempio sulla difficoltà da me dichiarata durante la formazione, il paradosso è nel fatto che gli/le allievi/e non credendo alla mia dichiarazione di essere in difficoltà, avevano torto e ragione contemporaneamente. Torto perché io ero veramente in difficoltà e sentivo di aver perso il contatto sia con la persona che con il gruppo. Ragione perché nel momento che io ho riconosciuto e dato valore al mio essere in difficoltà e l’ho esplicitato, sono uscito dalla difficoltà e ho ritrovato il contatto nella situazione.

 

F. (qualche mese dopo). Oggi mi è successo qualcosa… che mi ha sorpreso … e toccato … dentro.

M. (colpito dalle sue spalle dritte e lo sguardo acceso) Beh, si vede che ti è successo qualcosa. Hai voglia di raccontarmelo ?

F. – Lungo la strada che faccio per venire qui, c’è sempre una signora anziana con un cagnetto, seduta ad un incrocio, che chiede l’elemosina. Ogni tanto le do una moneta, ma mi sento a disagio, lo faccio velocemente, senza dire niente, poi scappo. Oggi … non so perché … mi sono fermato … l’ho salutata … e ci siamo messi a parlare. Mi ha raccontato di come vive, che riesce a pagarsi un piccolo appartamento, che non ha famiglia ma tutti i commercianti intorno l’aiutano, le portano cose da mangiare … a volte anche abiti e che qualche giorno fa i vigili volevano portarla via e la gente è uscita dai negozi ed è andata a protestare con i vigili e li hanno convinti a lasciarla la, che non era sola e faceva parte del quartiere. Mi sono venute le lacrime. Mi sono scusato che non avevo monete … lei mi ha preso la mano e mi ha sorriso … l’ho guardata negli occhi …e io mi sento bene.

M. – (con gli occhi lucidi)- E questo tuo benessere ha senso per te?

F . – Non so spiegarlo …ma …  mi sono reso conto che non sono solo.

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