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La paura: una prospettiva evolutiva

La paura: una prospettiva evolutiva

 Abstract

Le emozioni rappresentano un canale sensoriale, immediato e precognitivo di comprendere, rispondere e comunicare con le altre persone riguardo i fenomeni dell’ambiente. Ogni emozione, dunque, ha un suo significato ed una sua funzione. In questo articolo verrà approfondita l’emozione della paura sia da un punto di vista funzionale che psicologico, ne verrà data una lettura evolutiva ed infine verrà presentata una situazione clinica per illustrarne come può agire la paura nei bambini e le implicazioni metodologico-pratiche del lavoro terapeutico. 

 

Emozioni corpo ed espressione

Le emozioni non sono delle energie misteriose, derivano dalle sensazioni corporee e sono espresse grazie alla muscolatura e alla postura del corpo (Perls, 1995). Tendiamo a collocare tutta la nostra esistenza all’interno del cervello; in realtà in ogni muscolo, tendine, organo del nostro corpo risiede la nostra mente e così anche le emozioni hanno un collegamento diretto con il corpo (Oaklander, 2015).

Le emozioni, inoltre, emergono in risposta agli eventi che accadono intorno a noi e, proprio per questo, sono la testimonianza diretta del nostro collegamento con l’ambiente nella situazione presente. Il nostro organismo, infatti, si altera in risposta ad una situazione reale e da questa alterazione emergono sensazioni e poi emozioni chiare. Citando Perls, possiamo dire che le emozioni sono tendenze unificanti di alcune tensioni fisiologiche con situazioni ambientali favorevoli o sfavorevoli e consentono la conoscenza ultima di ciò che ci serve per soddisfare i nostri bisogni (Perls, Hefferline, Goodman, 1997).

Le emozioni hanno quindi un’importanza centrale nell’identificare i nostri bisogni e nell’orientare l’azione al fine di soddisfarli. (Perls, Hefferline, Goodman, 1997)

Al contrario, quando perdiamo la consapevolezza delle nostre sensazioni il rischio è di sentirci senza ground, cioè senza alcun contatto con se stessi o con l’ambiente circostante; un po’ come se ci mancassero le radici. (Kepner, 1997)

Spesso, inoltre, si sente parlare di emozioni in termini negativi o positivi; generalmente la felicità è annoverata tra le emozioni positive, mentre la paura, la tristezza e la rabbia tra quelle negative. In realtà tutte le emozioni sono funzionali alla nostra sopravvivenza.

Le  emozioni di base individuate da Ekman sono gioia, tristezza, rabbia, sorpresa, paura e disgusto (Ekman & Friesen, 2007). Tra queste, la gioia rappresenta il piacere di condividere e ha l’importante funzione sociale di connetterci agli altri. La rabbia è un’energia che emerge quando la persona incontra nel suo ambiente un evento percepito come ostacolo alla soddisfazione di un bisogno o quando sente minacciati i suoi confini da intrusioni esterne. La tristezza ci segnala la presenza di una perdita che preme per essere elaborata oppure, nella sua sfumatura più nostalgica, una mancanza. Non per ultima, la paura, è un’alleata importante poiché ci segnala la presenza di un pericolo e ci mette nelle condizioni di seguire le reazioni difensive istintuali.

Certo alcune emozioni possono essere spiacevoli e questo avviene quando ci sentiamo sopraffatti da esse.

«Ogni emozione, ogni sensazione da piacevole si trasforma in spiacevole, quando la sua tensione o intensità oltrepassa un certo limite. Un bagno caldo può essere piacevole, ma se alziamo la temperatura può diventare spiacevole, fino al punto in cui ci si scotta e la vita è in pericolo. […] I bambini amano essere abbracciati, ma non apprezzano affatto di essere “abbracciati da morire” (Perls, 1995, pp. 188) »

Generalmente, quando percepiamo un’emozione spiacevole tendiamo a respingerla o a silenziarla e questo mina il nostro benessere. L’organismo, infatti, ha bisogno di completare le situazioni emozionali per passare da uno stato di tensione a quello di rilassamento e lasciare spazio all’emergere di nuovi vissuti . Questo bisogno è ben rappresentato dal paragone con il bisogno di mingere (Perls, 1995). «Si può trattenere l’urina per un numero di ore, ma non si urina per più di un minuto. Trattenere le emozioni porta ad un avvelenamento emozionale come il trattenere l’urina porta all’uremia (Perls, 1995, pp. 187).»

Quando un’emozione viene trattenuta, viene scaricata in piccole quantità e allora possiamo sentirci di cattivo umore per giorni, o proiettarla su altri (Perls, 1995).

Le ragioni che ci portano a trattenere le emozioni giudicate spiacevoli sono variegate e di solito hanno origine nella nostra infanzia; i neonati sono in pieno contatto con i loro bisogni e manifestano spontaneamente le emozioni, ad esempio attraverso il pianto, come tentativo di ottenere dall’ambiente ciò di cui necessitano per stare bene (Oaklander, 2015).

Con il tempo, non è improbabile sentir dire ai piccoli, soprattutto se maschi, frasi del tipo:

“i bambini forti non piangono!”, eppure la letteratura è disseminata di uomini valorosi che non si vergognano di piangere! (Perls, 1995).

Quando i bambini al confine di contatto fanno l’esperienza di essere disprezzati nelle loro manifestazioni emotive,  il rischio è che sviluppino un sentimento di vergogna. Faranno, cioè, quanto possibile per nascondersi e diventare sfondo, ad esempio coprendosi il volto ogni qual volta quel sentimento emerga. Il rischio è che, nel tempo, perdano in parte o completamente la consapevolezza di quell’emozione e la vergogna diventi la sensazione predominante. Nella vergogna le zone più esposte del corpo sono irrorate da un maggior afflusso di sangue producendo il tipico rossore (Perls, 1995). Il paradosso è che il bambino investe buona parte delle energie nel tentativo di nascondersi ma quello stesso rossore lo evidenzia agli occhi degli altri.

Oltre al disprezzo e alla negazione delle manifestazioni emotive, anche vivere situazioni traumatiche mina la capacità di fare contatto con sé e con l’ambiente.

I bambini, infatti, tendono a reprimere le emozioni collegate a eventi traumatici; questo avviene a causa della loro naturale attitudine all’egocentrismo, inclinazione per la quale si addossano responsabilità e colpe di ciò che avviene nel loro ambiente e finiscono per biasimarsi per questo. In conseguenza di ciò imparano a reprimere le loro emozioni a tal punto da perderne la consapevolezza. Con il tempo viene meno la loro capacità di fare contatto con sé e con l’ambiente con conseguenze negative sul loro benessere. Per tutte queste ragioni, in seduta è importante sostenere il paziente a nominare, specificare e tollerare le sue emozioni, ed è ancor più importante che lo psicoterapeuta faccia lo stesso. Solo questo può favorire un reale processo di cura (Oaklander, 2006).

Paura ed eccitazione nel ciclo di contatto

Come già anticipato, la paura è un’emozione primordiale da sempre presente in tutti gli animali, parte integrante dell’istinto di sopravvivenza. Si manifesta nel corpo con sintomi di varia intensità e natura, quali ad esempio, un generale senso di allarme, un aumento delle palpitazioni e della frequenza respiratoria, rigidità muscolare, irrequietezza, gambe molli, vertigini, aumento della sudorazione e così via.

La paura emerge in risposta alla presenza nell’ambiente di un pericolo reale e nonostante  procuri sensazioni sgradevoli, ci garantisce quella spinta necessaria a seguire le reazioni difensive istintuali (www.gestaltbo.it).

Nella nostra società i pericoli che corriamo non sono necessariamente collegati alla sopravvivenza, eppure le nostre risposte neurovegetative ci portano ad avere reazioni di paura simili a quando, ancora cacciatori e raccoglitori, eravamo minacciati da un predatore.

A livello relazionale la paura è presente in varie forme; la paura del giudizio, la paura di perdere l’altro, la paura dell’intimità e così via. Ogni fase del ciclo di contatto tra organismo e ambiente, infatti, suscita desiderio e paura. Quando l’eccitazione e il desiderio crescono, cresce anche la paura e la possibilità di incontrare una novità dipende anche dalla capacità di tollerare la paura (Salonia, 2014). Un bambino va verso l’ambiente in modo spontaneo e vitale. La sua sicurezza nell’andare verso deriva dai suoi contatti scontati che gli permettono di fare un’esperienza integrata di Sé, differenziata dagli altri. Quando questo ground manca, il nuovo non viene più percepito come un’eccitante opportunità di crescita ma come una minaccia alla propria sicurezza. La paura non è più tollerabile e il contatto si interrompe (Spagnuolo Lobb & Amendt-Lyon, 2007).

A livello evolutivo i bambini apprendono le competenze relazionali quando nelle diverse fasi del ciclo di contatto sono sostenuti dai genitori. Quando un genitore si spaventa delle naturali paure di un bambino queste diventano intollerabili per il figlio che anziché andare verso un contatto pieno, svilupperà un sintomo (Salonia, 2014).

L’ansia, ad esempio, è il frutto di un’eccitazione interrotta nel ciclo di contatto e che resta inespressa nel corpo. L’ansia pur esprimendosi con sintomi simili alla paura, non va confusa con quest’ultima. A differenza della paura, infatti, non è collegata alla presenza nel qui-ed-ora di un pericolo reale, piuttosto è generata da un’anticipazione di un evento futuro giudicato come doloroso o pericoloso. L’ansia è il sintomo che sostituisce il passo verso il contatto pieno, passo che l’organismo ha interrotto perché sopraffatto dal timore per le fasi successive (Robine, 2014). Per tutte queste ragioni, l’ansia, racchiude in sé una matassa confusa di emozioni inespresse e di cui si è persa la consapevolezza .

La paura non deve neanche essere confusa con la fobia, che rappresenta un timore irrazionale e invincibile per oggetti o specifiche situazioni le quali, secondo il buon senso, non dovrebbero provocare timori (Galimberti, 2018). A differenza di ciò che avviene nella paura, la persona non teme un pericolo reale nel qui-ed-ora, ma percepisce insopportabile la sensazione derivante dalla vicinanza dell’oggetto fobico. Anche le fobie sono da considerarsi sintomi dovuti all’interruzione del contatto. In un quadro evolutivo, il bambino, sopraffatto  dal terrore,  interrompe il contatto perché la sua eccitazione non ha trovato un adeguato sostegno nell’ambiente (Salonia, 2001b). Se l’ansia è caratterizzata dall’anticipazione nel qui-ed-ora di un evento futuro, nelle fobie si ha invece una distorsione percettiva: per evitare di sentire emozioni di cui ha il terrore, la persona le connette ad un oggetto esterno. Aumenta in questo modo anche la sua capacità di controllo, basterà, infatti, tenere lontani i ragni per scacciare quella sensazione così terrificante! (Perls, Hefferline e Goodman, 1997). Inoltre, spostando quella specifica emozione sull’oggetto fobico, il bambino protegge la relazione con i genitori perché ha fatto l’esperienza corporea che manifestarla al confine di contatto destabilizzerebbe quel rapporto così importante per la sua sopravvivenza (Salonia, 2014).

Le fobie nascono, quindi, dalla mancata possibilità di elaborare un complesso di vissuti dolorosi, non nascono esclusivamente da una cattiva gestione della paura.

La paura nella pratica clinica

La paura, quindi, è un’emozione presente nel nostro repertorio cognitivo ed espressivo fin dalla nascita e già da neonati, dai primi istanti di vita, siamo sensibili all’ambiente ed in grado di reagire attivando questa specifica emozione. Ma come il neonato giorno per giorno cresce e si evolve, maturando e consolidando sempre più competenze, anche la paura, affronta un processo di evoluzione.

In realtà i circuiti neuronali che attivano le emozioni in genere e quindi anche la paura sono sempre gli stessi e funzionano nello stesso modo per tutto l’arco della vita della persona, mentre quello che cambia sono i motivi e i fenomeni che elicitano questa emozione. Come ipotizza Panksepp (1998; 2001) l’esperienza delle emozioni è generata non nella corteccia ma nel sistema limbico. Ogni emozione è basata su un sistema particolare di schemi cerebrali che ha sede, appunto nello strato limbico, dietro la corteccia (l’area subcorticale).

Fa parte dell’esperienza di tutti avere delle paure da bambini che in età adulta svaniscono, come appare evidente che i motivi per cui un adulto prova paura siano diversi da quelli di un bambino.

Pensate, ad esempio, alla paura del buio: quasi tutti i bambini hanno questa paura mentre solo alcuni adulti sono spaventati dall’oscurità, dallo stare in una stanza della casa al buio. Per un adulto, invece, è molto più comune avere paura di non essere all’altezza delle aspettative o di perdere un’amicizia o un affetto.

Naturalmente a cambiare non sono i motivi, nel senso che non è il fenomeno che perde la sua capacità di essere spaventoso, ma cambiano le nostre competenze cognitive, aumenta la nostra esperienza, si consolidano le dimensioni esistenziali interne come l’autostima ed il senso del sé, in altre parole cambiamo noi, cresciamo, ci evolviamo e questo influenza il modo in cui viviamo il rapporto con l’ambiente e anche gli effetti di quest’ultimo su di noi proprio, perché affiniamo la nostra sensibilità e ci apriamo ai concetti astratti e immateriali.

Accade qualcosa di simile a quanto descritto da Maslow (1954) relativamente ai bisogni. Secondo lo psicologo statunitense i bisogni si strutturano in gradi, connessi in una gerarchia di prevalenza relativa secondo lo schema seguente:

  • fisiologia
  • sicurezza
  • appartenenza
  • stima
  • autorealizzazione

Quindi i primi bisogni che vengono percepiti sono quelli relativi alla sopravvivenza come la fame, la sete, il sonno e tutti gli altri bisogni fisiologici. Soddisfatti questi, la persona può dedicarsi a quelli successivi come la salute, la famiglia, la sicurezza fisica ed in questa scala di successioni arrivare infine al livello più alto in cui troviamo i bisogni legati alla creatività, moralità, spontaneità, etc.

Relativamente alla paura accade qualcosa di molto simile, nel senso che all’inizio della vita il neonato è connesso quasi esclusivamente con i rischi relativi alla propria sopravvivenza, per le capacità in suo possesso di comprensione di sé nel mondo, e quindi reagisce con paura ai rumori improvvisi, alle luci molto forti, alle urla e agli altri fenomeni simili. Mano a mano che cresce e si sviluppa, aumentano le sue competenze mentali, aumenta la sua socialità, entra in contatto con la complessità delle relazioni e si sintonizza sempre di più con livelli più astratti dell’esistenza che acquistano un’importanza sempre maggiore tanto da poter elicitare la paura, appunto, se accade qualcosa anche a questi livelli. Pensiamo alla paura di fallire, o di essere esclusi dal gruppo, o di non trovare un senso alla propria vita. Tutte paure molto lontane da quelle primordiali del fuoco e del tuono!

Ciò non significa che crescendo smettiamo di aver paura delle minacce alla propria sopravvivenza dando valore solo a questioni più “alte”, più evolute, anzi l’attenzione per questi fenomeni resta e mentre proseguiamo il nostro sviluppo all’aggiungersi di competenze cognitive aggiungiamo fattori che possono elicitare paura, con una modalità sommatoria e cumulativa. Naturalmente sviluppiamo anche le capacità che ci consentono di far fronte a possibili pericoli, così ad esempio se vediamo che sta arrivando un temporale, non ci spaventiamo se vediamo un fulmine o sentiamo un tuono, ma se nel silenzio arriva un tuono improvviso e molto forte è possibile che la nostra reazione sia di spavento, inizialmente, per poi lasciare il posto alla razionalizzazione e alla comprensione di quanto accaduto che ci riporta in uno stato di quiete.

Questo esempio mette in luce un’altra caratteristica della paura e delle emozioni in generale, e cioè la loro immediatezza: quando accade una perturbazione nell’ambiente istantaneamente reagiamo attraverso un’attivazione emotiva in risposta all’effetto che il fenomeno ha su di noi. Solo in un secondo momento, a distanza di qualche millisecondo, si attiva la cognizione con i suoi meccanismi di comprensione (Tommasello, 2019).

A fronte di quanto scritto finora a titolo esemplificativo, passeremo ad illustrare, attraverso la descrizione di un caso clinico come si presenta la paura nei bambini e una possibilità di lavoro su questo tema.

La paura nei bambini

B. è un bambino di 6 anni che arriva da dal terapeuta perché da qualche settimana è più nervoso del solito, non va più volentieri a scuola, spesso reagisce in modo irritato ai limiti, fatica ad addormentarsi e a volte si sveglia di notte e chiede di stare nel letto con mamma e papà. I genitori sono preoccupati nel vedere il loro bambino stare male e vorrebbero capire cosa gli stia succedendo. Da subito appare evidente di come parlino di B. in termini individuali e sintomatologici, non collegando quello che il piccolo sta esprimendo a possibili situazioni presenti nell’ambiente, nè a loro stessi. Questo è il primo rimando fornito spiegando che le emozioni sono modi di rispondere alle influenze ambientali, profondamente relazionali e quindi da significare all’interno di relazioni e non in modo solipsistico. Pensare che le emozioni espresse appartengano esclusivamente a B. e che l’ambiente attorno a lui, compresi i suoi genitori, non giochino un ruolo nell’alimentare il suo disagio e quindi, possono avere un ruolo anche nel promuovere il suo benessere, crea una dinamica di progressivo isolamento che aumenta, invece di diminuire, i tentativi, per ora controproducenti di B. di soddisfare i propri bisogni.

Un bambino piccolo spesso è in grado di esprimere le proprie emozioni, ma è meno in grado di definirle, spiegarle, collegarle all’ambiente ed è per questo che diventa importante che questa consapevolezza ci sia da parte dei genitori perché, in quanto adulti che si prendono cura, possono compiere quel collegamento ed effettuare una costruzione di senso, praticamente impossibile per un bambino, in modo da restituire chiarezza e comprensione a se stessi ed al figlio.

Fin dal primo incontro si nota che B. è in grado di costruire la relazione con il terapeuta in modo autonomo e sano, riuscendo a bilanciare le spinte volitive con la capacità di assecondare, muovendosi con flessibilità tra la funzione di leader e quella di gregario. Di fronte ai limiti ed ai no, oppone una iniziale resistenza che riesce comunque a modulare, risultando equilibrato nell’incontro con la differenza di stile e di scelta. Emotivamente, dalle attività che svolge con il terapeuta, emerge una iniziale rabbia verso alcune situazioni o persone – emozione che al momento dell’incontro iniziale era quella maggiormente riportata dai genitori nel descrivere le manifestazioni ed il tono emotivo di B. – ma addentrandosi emerge che manca sia la spinta aggressiva, sia la carica emotiva per sostenere l’esagerazione e la simbolizzazione di questi aspetti. Si affaccia il sospetto che ci sia dell’altro, o meglio che la rabbia sia un’emozione di copertura. Proponendo attività proiettivo-espressive compare così un’altra emozione: la paura. Inizialmente in modo destrutturato, non collegata ad un episodio e quindi non di tipo traumatico. Il lavoro va nella direzione di consentire a B. di poterne fare esperienza, di poterla vedere, di poterci giocare e, soprattutto, di non restare da solo con questa emozione.

Parlando con i genitori emerge che in passato, quando B. diceva di aver paura, ad esempio, svegliandosi durante la notte o in altri momenti della giornata per qualcosa che accadeva, erano soliti reagire razionalizzando e sminuendo l’accaduto dicendo “Non devi avere paura non è successo niente”, “Non aver paura, è passata solo una moto”, oppure distraendolo e facendolo ridere quando stava per mettersi a piangere. In questo modo, implicitamente, a B. è arrivato il messaggio che non era permesso aver paura e, come spesso accade ai bambini che per conformarsi alle aspettative dei genitori mettono da parte la propria integrità (Juul, 2001). B. ha cominciato a trattenersi quando sentiva paura, non solo accumulando tensione ed emozione inespressa ma anche evitando di sviluppare le competenze per conoscere sé stesso da questo punto di vista e per gestire ed utilizzare la paura stessa.

Potendo parlare della paura, disegnarla, inventare storie spaventose e creare scene in cui a turno ci si spaventava e ci si prendeva cura dell’altro, l’irritazione e l’oppositività di B. sono diminuite. Inoltre parlando di tutto questo insieme ai genitori e fornendogli indicazioni su come dargli supporto emotivo è migliorata non solo la loro relazione, ma anche il senso di efficacia di mamma e papà in grado, adesso, di costruire insieme un senso di quanto accade. Diventare parte della difficoltà del figlio ha fatto comprendere loro come poterlo aiutare uscendo dalla colpevolizzazione di non essere dei buoni genitori, aumentando così il loro investimento relazionale, invece di mettere una distanza e  minimizzare le manifestazioni per non sentirsi parte in causa.

Per quanto riguarda la paura di B., come già detto, non è emerso un evento scatenante, né sono emersi episodi particolari e non è raro che lavorando sui blocchi emotivi con i bambini, ad esclusione delle situazioni traumatiche, l’azione terapeutica non sia la scoperta dell’origine ma il creare la possibilità di masticare e poi assimilare l’emozione stessa.

In conclusione, il sintomo che sviluppa un bambino è utile poiché è ciò che permette alla famiglia di riconoscere una difficoltà e chiedere aiuto. Nella relazione terapeutica però il lavoro non è rivolto esclusivamente al sintomo; ciò che è importante è dare sostegno al processo di formazione della gestalt, affinché l’eccitazione bloccata che causa il sintomo venga sciolta e la persona sia finalmente libera di muoversi nel mondo traendo nutrimento per la sua crescita (Perls, 1995). In questo processo è importante offrire ai bambini esperienze nuove e dare loro il sostegno necessario affinché possano riconoscere, contestualizzare ed esprimere le loro emozioni che a volte si accavallano, come nel caso di B., in cui la paura era in realtà celata dalla rabbia.

Bibliografia

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