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Fragili spaventati guerrieri

Fragili spaventati guerrieri

Abstract

Alla luce delle ricerche e degli eventi degli ultimi anni, molti sostengono che il nostro impatto sul mondo, sul “nostro” mondo, porterà in breve tempo a sconvolgimenti tali da cambiare radicalmente le nostre vite. Il grido d’allarme è stato lanciato ma nessuno sembra prenderlo sul serio. Se una società non è in grado di garantire un futuro alle generazioni a venire e lascia soli gli elementi più esposti, ovvero coloro che dovrebbero raccogliere il testimone e portare avanti una determinata idea di Mondo, come possiamo immaginare una “possibilità programmatica di futuro oltre la fine”, come prevedeva De Martino per le Apocalissi Culturali? La sola speranza sono i milioni di giovani preoccupati, arrabbiati e coinvolti che malgrado la fatica, la sofferenza e la disperazione riescono a non distogliere lo sguardo, a superare il trauma, a resistere alla cattura stregonesca di questa società. Fragili Spaventati Guerrieri.

Le diagnosi proposte erano numerose, incluse sindromi collegate a miliardi di tossine cosparse sulle scorte di cibo del paese ogni anno. Il suo secondo pediatra era incline a far rientrare Robin “nello spettro autistico”. Volevo dire a quell’uomo che tutte le persone di questo piccolo, accidentale pianeta rientravano nello spettro autistico. È proprio quello il significato di spettro. Volevo dire a quell’uomo che la vita stessa è un disturbo dello spettro, dove ognuno di noi vibra a un’unica frequenza nel costante arcobaleno. E poi volevo mollargli un pugno. Immagino che ci sia un nome anche per quello.

Sicuramente, nel DSM non compare un nome per la compulsione a diagnosticare la gente.

Richard Powers, “Smarrimento” (2021)

 

Nel 1977 veniva pubblicato postumo il volume “La fine del mondo” di Ernesto De Martino. Nella sua opera, il cui sotto titolo è “Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, De Martino analizza la crisi del mondo a lui contemporaneo e i modi in cui a questa si può reagire sul piano simbolico e culturale, a partire da un’analisi e da un confronto con i dispositivi mitico-rituali utilizzati da civiltà passate al fine di esorcizzare l’angoscia da “fine del mondo” e trascenderla.

De Martino opera una distinzione tra Apocalissi Culturali e Apocalissi Psicopatologiche: le prime sarebbero culturalmente e eticamente elaborate e prospettano una possibilità programmatica di futuro oltre la fine. Le seconde escludono ogni speranza di futuro e sono prive di elaborazione culturale, sono morbose e patologiche.

Tutte le società, non diversamente dagli individui che la compongono, sono attraversate da un’inquietudine, dal terrore del non esserci, dalla paura di perdere la propria presenza nel mondo.

In una conversazione con Cesare Cases, De Martino osservava:

 

“La fine del mondo c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?”.

 

A proposito delle Apocalissi Culturali, in un’ottica clinica, lo psicanalista Claudio Neri in un articolo dedicato a De Martino scrive:

“L’apocalisse culturale è una crisi comunitaria, che contiene in germe la rivelazione di un nuovo mondo e di un’esistenza migliore. La dinamica delle apocalissi culturali, inoltre, mostra come esse rappresentino sempre un tentativo di integrazione dell’individuo e della sua crisi, in un progetto comunitario di esserci-nel-mondo. La messa in scena drammatica, il mito ed il rito giocano un ruolo essenziale, nel rendere possibili il positivo attraversamento della crisi della presenza”.

 

Nel dopoguerra, di cui De Martino è testimone, l’apocalittica contemporanea diviene però gradualmente sempre meno culturale e sempre più psicopatologica, acquisendo un significato ambiguo e ambivalente. De Martino tenta, attraverso il suo lavoro di analisi e confronto, di ricondurre l’apocalittica moderna al campo delle Apocalissi Culturali al fine di trovare il modo di andare oltre la crisi, di trascenderla e reintegrarla.

De Martino si augurava che l’umanità (l’uomo “occidentale”, in realtà), non potendo più attingere ad una forza trascendente in cui non credeva più, sarebbe stata capace di riconoscere la propria fragilità e mettersi conseguentemente al lavoro per superare la crisi attraverso un “rinnovato umanesimo”.

 

A quasi 50 anni di distanza questo “rinnovato umanesimo” sembra ancora distante… e l’apocalisse psicopatologica sembra aver avuto la meglio su quella culturale.

 

I dati sono chiari e inequivocabili.

 

A marzo di quest’anno è stato pubblicato il nuovo Report dell’IPCC, il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico, che rivela che rischiamo un Mondo fino a 4 gradi più caldo entro la fine del secolo. Sino a poco tempo fa ci veniva detto che la soglia da non superare era quella del grado e mezzo.

 

L’ultimo rapporto del International Rescue Committee (2023) afferma che il rischio di nuove emergenze umanitarie è sempre più elevato. I tre fattori chiave che accelerano le crisi umanitarie sono i cambiamenti climatici, i conflitti e le turbolenze economiche e rischiamo di andare verso una catastrofe, coinvolgendo oltre tre miliardi di persone.

 

A sua volta, OXFAM ha recentemente pubblicato un documento sul livello allarmante a cui è arrivata la disuguaglianza nel mondo fra poveri e ricchi: a partire dal 2020 l’1% più ricco ha accumulato quasi il doppio della ricchezza netta globale rispetto alla quota andata al restante 99% della popolazione mondiale. Le fortune dei miliardari aumentano di 2,7 miliardi di dollari al giorno, mentre almeno 1,7 miliardi di lavoratori vivono in Paesi in cui l’inflazione supera l’incremento medio dei salari.

Il modello socio-economico che ha dominato gli ultimi due secoli sta portando inevitabilmente la nostra società verso il disastro. L’”apocalisse”.

 

Eppur nulla si muove. O troppo poco. E troppo lentamente.

Com’è possibile? Cosa sta succedendo? Il nostro stile di vita – per molti la vita stessa, per alcuni la nostra stessa specie – è in pericolo, ma sostanzialmente la navigazione procede spedita e inalterata. L’iceberg è immobile davanti a noi ma continuiamo a “rimuoverlo”. Un enorme neglet collettivo.

 

In un articolo che risale al 2007, una giornalista del Sole24Ore commentava i risultati di una ricerca condotta negli Stati Uniti:

“Da quando è iniziata la guerra in Iraq, l’autrice [della ricerca] è stata finanziata dal Pentagono per utilizzare le sue tecniche di cura mediante realtà virtuale sui quei soldati che ritornano dal fronte malati di PSTD (stress post-traumatico), una forma di disagio mentale successiva ad un’esperienza traumatizzante, che causa depressione, ansia e varie alterazioni del comportamento.

La desensibilizzazione verso l’esperienza traumatizzante subita dai soldati, mediante la sua ricostruzione in realtà virtuale e l’esposizione progressiva sta dando buoni risultati. Fin qui tutto bene: l’obbiettivo è quello di usare la tecnologia per curare delle persone mentalmente sofferenti. Poi però, strada facendo, ai ricercatori coinvolti è venuta la seguente idea: se con la realtà virtuale ed i videogiochi riusciamo a desensibilizzare le persone rispetto agli orrori che hanno vissuto in guerra nel passato, perché non usiamo le stesse tecniche per desensibilizzare chi deve partire per la guerra rispetto agli orrori che vedrà nel suo prossimo futuro? E si sono inventati un’apposita parola chiave: stress inoculation. L’idea è di vaccinarsi rispetto allo stress: esponendomi ripetutamente a situazioni terribili in realtà virtuale, diventerò immune alle emozioni negative di quelle situazioni quando le vivrò realmente. Nel sistema utilizzato, sensori fisiologici misurano come il corpo dell’utente reagisce all’esperienza virtuale, in modo da verificare oggettivamente che l’esposizione progressiva lo stia abituando alle situazioni spaventose simulate”.

 

È quanto avviene normalmente alle popolazioni che si trovano a vivere in scenari di guerra. Con l’andare del tempo vi è una sorta di “assuefazione” all’esplosione delle bombe, al suono delle sirene, ai paesaggi devastati, ai morti e ai feriti. Al disastro.

Sono le conseguenze del trauma.

L’alternativa sarebbe un dolore insopportabile. La follia.

 

Ma Bessel Van Der Kolk, autore che negli ultimi anni ha portato un contributo fondamentale allo studio e al trattamento del trauma, scrive nell’incipit de “Il corpo accusa il colpo” che:

“Non bisogna essere un soldato o visitare un campo di rifugiati in Siria o in Congo per imbattersi nel trauma. Il trauma accade a noi, ai nostri amici, alle nostre famiglie e ai nostri vicini”.

E nei capitoli successivi:

“Il trauma, per definizione, è insopportabile e intollerabile. […] Il trauma produce cambiamenti psicologici reali, come, per esempio, una ritaratura del sistema d’allarme del cervello, un incremento dell’attività degli ormoni dello stress e alterazioni nel sistema deputato a discriminare le informazioni rilevanti e quelle irrilevanti. […] Il trauma esita in una fondamentale trasformazione del modo in cui mente e cervello organizzano le percezioni. Cambia non solo il modo in cui pensiamo e ciò che pensiamo, ma anche la nostra effettiva capacità di pensare. […] Perché avvenga un reale cambiamento, il corpo ha bisogno di apprendere che il pericolo è passato e di vivere nella realtà presente”.

 

E se il pericolo non è passato? Se il pericolo fa ormai parte del nostro quotidiano e va a costituire lo sfondo della nostra presenza?

Se il pericolo siamo noi…!?

 

Françoise Sironi, di formazione etnopsichiatrica (allieva e collega di Tobie Nathan, il maggior rappresentante dell’etnopsichiatria contemporanea), negli ultimi vent’anni ha lavorato alla definizione di un nuovo approccio clinico, la “Psicologia geopolitica clinica”, focalizzata sulle relazioni sociali determinate dalle strategie di violenza.

La Sironi, in “Violenze collettive. Saggio di psicologia geopolitica clinica”, spiega che:

“Gli avvenimenti traumatici che attraversano i gruppi, le civiltà e le culture ne modellano la storia. Modellano anche i tipi di disordini psichici che si manifestano nella popolazione. Nel campo della psicopatologia traumatica, oggi ci troviamo di fronte pazienti che hanno conosciuto guerre di bassa intensità, attacchi terroristici, conflitti etnici, torture, genocidi, migrazioni di popolazioni ed esili forzati. Questo ci porta a considerare seriamente il posto che occupa la storia collettiva (politica, culturale, etnica, religiosa, sociale) nella psicologia individuale. […] La storia collettiva ha un rapporto di complementarietà con la storia individuale, che a sua volta ha un rapporto di complementarietà con la storia delle emozioni create in ciascuno di noi dal politico”.

 

Secondo Françoise Sironi la Storia Collettiva, quindi, può essere considerata un vero e proprio “oggetto attivo”, ovvero fa fare delle cose agli esseri umani e ai gruppi. I comportamenti individuali vengono “costruiti” a partire da determinanti legate alla storia collettiva. Per questo la storia collettiva fa parte degli oggetti con cui un clinico non può non confrontarsi.

A partire da queste considerazioni l’autrice introduce un altro concetto, quello di emozione politica.

“L’emozione politica è un’emozione scatenata da una particolare categoria di avvenimenti: quelli legati direttamente al mondo politico, sociale, culturale, religioso…

Le emozioni politiche nascono dall’articolazione fra storia individuale e storia collettiva. Sono identificabili sia a livello individuale, sia a livello dell’intera società. Sono provocate da avvenimenti esterni, di natura politica nel senso più ampio del termine. Si tratta di avvenimenti di ogni genere (violenti o pacifici) che hanno a che fare con la polis, cioè con la vita del gruppo, della collettività, e che segnano il destino individuale o collettivo, spesso all’insaputa degli interessati.

Le emozioni politiche strutturano fortemente, benché impercettibilmente, il modo di pensare contemporaneo”.

Vi è un filo rosso che collega gli autori sin qui citati e questa nostra “Epoca delle passioni tristi”, per riprendere la definizione di un altro autore e clinico, Miguel Benasayag.

Il nostro impatto sul mondo, sul nostro mondo, sul pianeta che è la casa che tutti abitiamo è devastante. E con tutti non possiamo limitarci a pensare unicamente agli umani, ma a tutte le infinite specie animali e vegetali che garantiscono un instabile equilibrio a questa casa (sempre meno “infinite”, se come sostiene il Global assessment report on biodiversity and ecosystem services siamo di fronte a un declino senza precedenti della diversità biologica: circa un milione di specie animali e vegetali sono a rischio estinzione).

Le sirene d’allarme continuano a suonare, sempre più forti. Siamo in guerra. Ma sembra che qualcuno ci abbia vaccinato dall’orrore. E dalla paura. Non sentiamo più il rumore delle bombe. Viviamo in una sorta di sordità emotiva. Desensibilizzati. Incapaci di reagire.

Perls, Hefferline e Goodman, in “Teoria e pratica della terapia della Gestalt”, scrivono che affinché l’emozione esista, è necessario che “l’eccitazione sia accettata e l’ambiente venga affrontato”.

Senza a(A)mbiente, non vi è eccitazione e quindi non vi è emozione…

 

In Dizionario Internazionale di Psicoterapia (2013), a proposito della Terapia della Gestalt, Cavaleri e Spagnuolo Lobb scrivono che:

“Per gli psicologi della Gestalt, lo sfondo è ciò con cui la figura è in relazione per potere emergere; è la condizione percettiva che consente la dominanza della figura, mentre la figura «organizzata», significativa, è «l’unità di misura della percezione», che risponde a una serie di leggi, la più importante delle quali è la legge della pregnanza. […] La formazione di figura è sostenuta da una forza vitale (un ad-gredere creativo che Perls identificò con la capacità di mordere del bambino, che si sviluppa nella fase evolutiva da lui denominata «aggressione dentale») che consente di destrutturare e ristrutturare la realtà in maniera assolutamente creativa e unica. […] Lo sfondo, inteso come le infinite e attuali possibilità di creazione in una situazione data, ha proprietà emergenti che non hanno a che fare con meccanismi di rimozione, bensì con la motivazione per il contatto, dunque per la crescita. […] Per la psicoterapia della Gestalt, quando non c’è contatto tra organismo e ambiente nessuna figura può emergere dallo sfondo”.

A proposito di ad-gredere, di aggressività, anche Alice Miller ne parla in quanto “benefico, espressivo, creativo potere umano di fare qualcosa o di fare in modo che qualcosa accada, di essere disposti a dare qualcosa al mondo e anche a ricevere dal mondo”.

Oggi sembreremmo incapaci di aggredire il mondo in una relazione di scambio nutriente. Oggi siamo incapaci di abitare situazioni di conflitto creativo. Viviamo in uno stato di perenne guerra.

L’unica relazione che sembriamo in grado di stabilire è una relazione cannibalica in cui divoriamo tutto ciò che è altro. Senza consapevolezza del fatto che gli altri siamo noi. Che il Noi include gli altri, in una relazione simbiotica.

Il nostro stesso corpo brulica di infiniti altri. Trilioni di microbi ci abitano e ci costruiscono. In altre parole, conteniamo moltitudini, come ci racconta Ed Yong nell’omonimo libro. I nostri partner microscopici costruiscono i nostri organi, ci proteggono dalle malattie, condizionano il nostro comportamento e ci bombardano con i loro geni. Più che individui, siamo rigogliosi ecosistemi! Lo siamo come singoli esseri viventi e lo siamo come specie.

Ma se non riconosciamo l’altro, se il nostro obiettivo è sfruttarlo, dominarlo, annientarlo pur di nutrire il nostro delirio di onnipotenza, ci stiamo in realtà condannando a un suicidio assistito. Nel senso che assisteremo alla nostra scomparsa, incarnando al contempo il ruolo di carnefici e di vittime.

In questo cortocircuito, in cui recitiamo due ruoli apparentemente incompatibili, risiede parte del problema che oggi ci troviamo ad affrontare. Siamo vittime di un trauma di cui siamo anche gli artefici.

Siamo gli Atzechi di cui parlava De Martino. E siamo i Conquistadores Spagnoli, i marziani piovuti da chissà dove.

In un mondo di sordità emotiva, in cui per sentire qualcosa occorre alzare il volume al massimo, chi ha un udito nella norma rischia di restare realmente assordato…

Ogni cultura ha i suoi folli, i suoi veggenti, le sue cassandre. Persone particolarmente sensibili che restano ai margini, o lì vengono spinti, perché il loro comportamento anomalo disturba. Persone che non riescono a vestire i panni del carnefice e si ritrovano isolati nel ruolo della vittima. Persone che non riescono a silenziare completamente il rumore di fondo del trauma e danno forma a una sofferenza di cui non riconoscono però l’origine.

Non è un caso che depressione e ansia vengano oggi considerate le forme di sofferenza prevalenti nelle nuove generazioni e che l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia definito la depressione “il male del secolo”.

In uno studio del 2021 realizzato dalla Research Department of Practice and Policy, UCL School of Pharmacy di Londra, è emerso che in tutto il mondo le vendite di medicine psicotropiche sono aumentate da 28,54 DDD (dose giornaliera definita) per 1000 abitanti al giorno nel 2008 a 34,77 DDD nel 2019, corrispondente a un aumento medio relativo annuo del 4,08%. Appare interessante il fatto che l’aumento annuo assoluto è stato maggiore nei paesi ad alto reddito, ovvero quelli che dovrebbero stare meglio ma che sono i principali responsabili della situazione in cui ci troviamo.

E tra la popolazione, i più colpiti sembrano essere proprio i giovani. I più vulnerabili. I più sensibili. Parafrasando il titolo di un libro di Stefano Benni: “Fragili Spaventati Guerrieri”.

Un altro dato significativo, da questo punto di vista, è l’incremento di ragazzi e giovani adulti che – incapaci di trovare un posto e un senso in questa società – decidono di ritirarsi volontariamente e rendere la propria “presenza” sempre più sfumata, impercettibile, fino a rasentare l’invisibilità. Il continuo aumento di casi di ritiro sociale e il fenomeno degli Hikikomori ne sono oggi una chiara testimonianza.

Se una società non è in grado di garantire un futuro alle generazioni a venire e lascia soli gli elementi più esposti, ovvero coloro che dovrebbero raccogliere il testimone e portare avanti una determinata idea di Mondo, allora risulta difficile immaginare una “possibilità programmatica di futuro oltre la fine”, come prevedeva De Martino per le Apocalissi Culturali. Rimane un Mondo da cui è “esclusa ogni speranza di futuro”. Restiamo soli e intrappolati in una Apocalisse Psicopatologica in cui non è più possibile alcuna elaborazione culturale del trauma.

Affinché la deriva psicopatologica possa essere contenuta occorre una cornice culturale che la proietti in una prospettiva di rinascita e risignificazione. Ma la cornice è bruciata con gli incendi che sempre più devastano le grandi foreste e il dipinto si va liquefacendo al pari dei ghiacci artici.

Sempre De Martino: “La fine di un mondo è dunque nell’ordine della storia culturale umana: è la fine del mondo, in quanto esperienza attuale del finire di qualsiasi mondo possibile, che costituisce il rischio radicale”.

Per De Martino la presenza è “fondamentalmente la capacità di riunire nell’attualità della coscienza tutte le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situazione storica, inserendosi attivamente in essa mediante l’iniziativa personale, e andando oltre di essa mediante l’azione” (Pizza, 2013). La crisi della presenza per contro vuol dire, per gli esseri umani, affacciarsi sull’abisso del marasma culturale, sul rischio di perdere il mondo e sé stessi con il mondo.

Nell’elencare le modalità e i sintomi della presenza che si perde, tra le altre De Martino fa riferimento a: l’angoscia, la fobia, l’assedio, l’invasione, la persecuzione, la melanconia, la mania, il weltuntergangserlebnis (sentimento di crollo del mondo) e il delirio paranoico.

Il moltiplicarsi dei casi di Attacco di Panico, il diffondersi in maniera trasversale di variegate teorie del complotto, l’incapacità di reagire in maniera costruttiva e mirata alle cause ormai dichiarate e riconosciute del disastro incombente, sembrano indicare i modi in cui la “presenza” stia fallendo nel tentativo di far fronte ai pericoli che tanto come individui quanto come comunità, società e specie ci minacciano.

Bessel Van Der Kolk ci dice che dopo un trauma, il mondo è percepito con un sistema nervoso differente. “L’energia del sopravvissuto è convogliata verso la repressione del caos interiore, a scapito della possibilità di coinvolgersi in modo autentico nelle attività della vita quotidiana”.

E se, dato quanto affermato in precedenza, al trauma del sopravvissuto si somma il trauma del torturatore, appare impossibile reagire in maniera coerente, autentica e creativa al disastro in corso.

Isabelle Stengers, filosofa della scienza, attivista e collaboratrice del premio Nobel per la chimica Ilya Prigogine, prova a dare una spiegazione a questo fenomeno, facendo ricorso a concetti che provengono da altri mondi, da altre logiche: “L’impresa che fa coincidere l’asservimento, la messa a servizio e l’assoggettamento, ovvero la produzione di quelli e quelle che, liberamente, fanno quel che devono fare, ha un nome antico. È qualcosa di cui i popoli più diversi – tranne noi moderni – conoscono la natura terribile, e la necessità di sviluppare mezzi adeguati per difendersene. Il suo nome è stregoneria.”

Appare significativo che tra i pochi soggetti capaci di reagire e tentare di sottrarsi agli effetti di questo processo “stregonesco” vi siano proprio coloro che normalmente vengono considerati meno attrezzati per far fronte alla realtà. Prendiamo ad esempio il caso di Greta Thunberg, diventata bandiera dello sviluppo sostenibile e dell’ambientalismo giovanile.

All’età di 13 anni le viene diagnosticata la sindrome di Asperger, un disturbo dello sviluppo annoverato tra quelli dello spettro autistico. Lei stessa afferma che il disturbo di cui soffre ha modellato anche il suo approccio alla crisi climatica

Proprio per l’assenza di sovrastrutture, i soggetti autistici sembra riescano meglio di chiunque altro ad entrare in risonanza emotiva con l’ambiente: questa risonanza non può essere decodificata né comunicata in maniera tradizionale.

Possiamo affermare che le persone autistiche hanno naturalmente una capacità di empatia emotiva, intesa come capacità di assorbire, senza filtri, le impressioni emotive che derivano dalle persone e dagli ambienti che li circondano. L’esatto contrario della “sordità emotiva” a cui la maggior parte della popolazione sembra ormai condannata.

In “Smarrimento” – da cui è tratta la citazione a inizio articolo – Richard Powers, uno dei pochi romanzieri che ad oggi affronta con sguardo critico e attento i cambiamenti del nostro Mondo (si pensi anche a “Il sussurro del Mondo”, in cui gli alberi sono co-pratogonisti del racconto, vincitore del premio Pulitzer nel 2019), il protagonista è Robin, un bambino “strano”, fragile, sensibile, determinato. Per certi versi simile a Greta, lucidamente consapevole dei rischi che tutte le forme di vita stanno correndo, si batte per la difesa dell’ambiente. Durante un’intervista con una giornalista interessata al suo caso, all’improvviso le dice:

“Tutti sono distrutti. Ecco perché stiamo distruggendo tutto il pianeta.”

La giornalista gli chiede: “Lo stiamo distruggendo?”

Al che lui risponde “E fingiamo che non lo stiamo facendo, come hai appena fatto tu. Tutti sanno quello che sta succedendo. Ma tutti distogliamo lo sguardo.”

Ma non vi sono solo Greta e Robin. Vi sono milioni, decine di milioni di giovani sensibili, preoccupati, arrabbiati e coinvolti. Sono coloro che malgrado la fatica, la sofferenza e la disperazione riescono a non distogliere lo sguardo, a superare il trauma, a resistere alla cattura stregonesca. Fragili Spaventati Guerrieri, sono il bambino della favola de “I vestiti nuovi dell’imperatore”, che indicando ciò che è davanti agli occhi di tutti gridano: “Il re è nudo!”.

Auguriamoci che non crescano troppo in fretta e che il loro eccesso di sensibilità sia una malattia contagiosa in grado di infettare l’intera umanità. Una malattia salvifica per la quale non ci sia vaccino…

P.S. Chi fosse interessato a conoscere meglio i movimenti giovanili che si battono per noi e per il nostro pianeta, a rischio della propria salute fisica e mentale, può collegarsi al seguente sito: https://www.theresilienceproject.org.uk/

Bibliografia

  • Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Piccola Biblioteca Einaudi, 2019
  • Françoise Sironi, Violenze collettive. Saggio di psicologia geopolitica clinica, Feltrinelli, 2010
  • Isabelle Stengers, Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio, IPOC, 2016
  • P. A. Cavaleri e M. Spagnuolo Lobb, in Dizionario Internazionale di Psicoterapia, a cura di G. Nardone e A. Salvini, 2013
  • F. Perls, R. F. Hefferline e P. Goodman, Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento della personalità umana, Casa Editrice Astrolabio, 1997
  • Ed Yong, Contengo moltitudini. Noi, i microbi e un nuovo modo di vedere la vita, La Nave di Teseo, 2023
  • Alice Miller, Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico, Bollati Boringhieri, 2010
  • Bessel Van Der Kolk, Il corpo accusa il colpo, Raffaello Cortina Editore, 2015
  • Richard Powers, Smarrimento, La Nave di Teseo, 2021
  • Miguel Benasayag M. e Gérard Schmit, L’epoca Delle Passioni Tristi, Feltrinelli, Milano, 2004

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