728 x 90

La supervisione come primo step della pratica clinica

La supervisione come primo step della pratica clinica

In memoria di Ruth Wolfert impietosa maestra,
probabilmente la più inaspettata. È
stata lei a regalarmi gli occhiali magici
che mi consentono di vedere la vita in
chiave di Gestalt sempre in processo
dinamico.

 

 

 

 

Jekyll provava molto di più che l’interesse di un padre,
Hyde molto meno che l’interesse di un figlio.

(Strange case of Dr Jekyll and Mr Hyde, Robert Louis Stevenson)

 

 

Premessa

Se devo immaginare una teoria della Gestalt integrata, mi trovo sempre con le stesse difficoltà, un pensiero con tanti modelli diversi che si scontrano senza arrivare mai a conclusioni minimamente unanimi. È stata Madeleine Fogarty a creare, almeno nel senso puramente clinico, un’idea di cosa fa uno psicoterapeuta della Gestalt che si pensa in maniera fenomenologica, un pensiero più o meno accettabile da tutti in questo controverso mondo teorico.

In questa complessità creare un modello clinico, e da lì un criterio di supervisione, diventa una vera sfida ermeneutica: posso quasi sentire le voci di protesta di quanti non si sentono “pienamente” rappresentati, ovvero quelle dei gestaltisti dell’America Latina, che sentono di essere più rispettosi della spontaneità della relazione; o le voci della West-Coast americana, legate agli ultimi anni di F. Perls, dove l’approccio olistico creava un nuovo e inaspettato influsso teorico; o quelle della East-Coast americana, fedelmente legate a Laura Perls, la quale darà forma al pensiero europeo oggi fortemente legato alla neo-fenomenologia. Tutte queste voci per diversi motivi, sono collegate dall’amore al pensiero originario di P. Goodman e al nostro libro fondativo. La mia idea di supervisione non ha come obiettivo sfidare altri pensieri teorici, piuttosto di accettare che, pur non avendo la stessa comprensione epistemologica, abbiamo la stessa responsabilità clinica. Neanche con il prezioso contributo di M. Fogarty sento che nel futuro prossimo avremo una teoria più o meno pienamente integrata. Il mio contributo spero abbia qualche utilità in questo senso.

 

La Psicoterapia della Gestalt nasce nel dopoguerra come risposta al relativo fallimento clinico del modello psicoanalitico nell’intervento con i pazienti che tornavano dal fronte di battaglia, principalmente con le prime pratiche di sostegno nel lavoro sullo stress post-traumatico. Saranno questi avvenimenti a stimolare una rilettura della visione topografica freudiana del se per arrivare ad una comprensione non contenutistica e fenomenologica: una rilettura dell’inconscio che ripensa l’es, il super io e l’io in termini di funzioni e non come impulsi astratti.

Nel pensiero di Paul Goodman, fondamentale nel “brain-storming” di Friedrich Perls, due correnti sociologiche fortemente collegate daranno forma all’idea di Gestalt come modello pratico, diretto e in teoria semplice nella pratica clinica. Questi movimenti, l’Interazionismo simbolico di George Herbert Mead e William James e il Pragmatismo Americano di Ralph Waldo Emerson e John Dewey, insieme con la Psicoanalisi formeranno la base per l’epistemologia della Psicoterapia della Gestalt che adesso condividiamo più o meno universalmente.

 

La supervisione come occasione per parlare anche del rapporto clinico tra terapeuta e paziente

 

Se pensiamo alla supervisione nel mondo della psicoterapia, basta guardare alla produzione della letteratura analitica, vasta e complessa, o gestaltica, scarsa e vaga, per verificare che il materiale che ci riporta profondamente al lavoro clinico nella relazione tra terapeuta e paziente finisce sempre nello stesso punto: una rigida visione del protocollo clinico o una visione legata solo al processo psicopatologico del paziente. Paradossalmente, anche nella letteratura gestaltica l’aspetto relazionale si limita a “sensazioni” che riguardano a volte aspetti sessuali del paziente (Spagnuolo Lobb; Pizzimenti; Salonia; Bellini ed altri) o ad aspetti relativi all’invidia o gelosia (Wheeler o Yontef).

Poche volte consideriamo che la crescita del terapeuta come individuo potrebbe limitare la qualità della relazione clinica, come potrebbe limitare anche la qualità della relazione che il terapeuta vive con le persone del proprio ambito di appartenenza. Poche volte riusciamo ad uscire dal mondo delle sensazioni, dove la relazione trova un limite di crescita possibile legato alla crescita individuale (S. La Rosa, “1” Aggressività Sessuale, Pizzimenti ed altri, 2015.). Nell’ambito della supervisione, non c’è spazio per l’idealizzazione né per frasi poetiche che tentano di giustificare una relazione clinica poco ricca.

Il campo fenomenologico che terapeuta e paziente co-creano non potrà crescere al di là delle competenze relazionali che ciascuno di essi crea. L’eccitazione dell’energia al confine di contatto tra terapeuta-paziente è la linea di demarcazione dove emerge una figura oggettuale come una novità assimilata o assimilabile (Gestalt Therapy – Goodman, Perls, Hefferline, 3/210; 1951).

Quello che rende la pratica clinica in psicoterapia una “scienza non scienza” è l’aspetto umano e imperfetto che caratterizza ogni relazione, l’incontro di due individui, in questo caso terapeuta e paziente, limitati e sofferenti dove la disciplina, la tecnica e la sensibilità costituiscono la vera differenza clinica. Assimilare la novità non sarà sempre fluido nè spontaneo, piuttosto un lavoro quasi di ricerca, duro e costante.

Noi gestaltisti ci rifugiamo nel linguaggio conosciuto che accontenta tutti o nel “comprensivismo”, concetto che la Psicoanalisi utilizza spesso quando si parla del modo in cui sottolineiamo parole come contatto, dolore, vicinanza, e, ovviamente, “qui e ora”.

Pochissime volte troviamo nel materiale didattico o psicopatologico qualche riferimento al limite relazionale della crescita nel rapporto terapeuta-paziente; meno ancora troveremo riferimenti che parlano dell’incapacità e dei limiti che tutti noi abbiamo come clinici o alla particolare mancanza di supervisione della maggior parte dei terapeuti del mondo.

Noi terapeuti e psicopatologi troviamo risposte convincenti che funzionano solo nell’ambito formativo e non sempre nell’evoluzione del processo clinico. L’autocritica del lavoro clinico che ognuno di noi compie, la mancanza quasi generalizzata di terapia personale e supervisione sono argomenti non trovati nella letteratura scientifica. Le conseguenze di queste pratiche-non pratiche avranno un forte impatto nella qualità della relazione clinica.

C’è solo una cosa chiara, ovvero la terapia come processo finisce nel momento esatto in cui scompare la necessaria asimmetria clinica, indispensabile per sostenere il vero rapporto terapeuta-paziente, che nella sua umanità non è mai paritario. E questo ci mostra quasi di colpo un altro aspetto poche volte affrontato: quando l’asimmetria clinica non forma parte del bagaglio epistemologico del terapeuta, questa si vive come mancanza di rispetto o di sufficiente empatia. L’asimmetria clinica, che non è né vuole essere superiorità, finisce nella confusione della confluenza quando il terapeuta, o più raramente anche il paziente, non accetta la distanza dei ruoli. Famosi epistemologi della psicoterapia della Gestalt sostengono ancora oggi che terapeuta e paziente sono uguali (*): un grave errore clinico che avrà serie conseguenze nel processo personale del paziente e nella relazione terapeuta-paziente. Un errore sfortunatamente frequente non solo nel mondo della Gestalt.

Probabilmente sarebbe un altro segno di buon senso inserire nella letteratura clinica come concetto realistico che “il blocco del paziente nella sua crescita clinica è inseparabile dal blocco del terapeuta”. Intendo, per blocco (dell’energia), un momento che impedisce il fluire spontaneo del contatto, la presenza nel setting delle Gestalt che il terapeuta ha lasciato aperte nel proprio sé, che in un certo modo si associano alle Gestalt aperte del paziente (Gestalt Therapy…. 1/49). Il paziente non può crescere all’interno della relazione clinica più di quanto la relazione possa offrire. (S. La Rosa “2” in Aggressività Sessuale; Pizzimenti de altri, 2015)

La relazione clinica non è diversa dal resto delle relazioni quando affrontiamo la responsabilità di quello che co-creiamo con il paziente al confine di contatto. La pratica clinica, nella sua asimmetria non scappa dalla realtà relazionale: su questo assunto i fondatori della Gestalt, forse immersi nel pensiero dell’epoca, pensavano alla psicoterapia della Gestalt come un modello clinico per persone sane, un’idea più umanitaria e più pragmatica del modello clinico che all’epoca offriva la Psicoanalisi, senza avvertire l’evoluzione nel trattamento delle malattie mentali che si scatenerà negli anni Settanta e arriverà fino agli anni Novanta costringendo la Psicoterapia della Gestalt a ripensare ad un processo clinico intimamente legato al processo evolutivo del paziente. All’epoca, sono stati Margherita Spagnuolo Lobb e Giovanni Salonia praticamente i primi a considerare questo bisogno epistemologico.

Nel ventennio tra gli anni Settanta e Novanta, parlare di asimmetria clinica era inimmaginabile nella psicoterapia della Gestalt, e la parola psicopatologia impensabile; è stata l’evidenza drammatica della crescita dei disturbi gravi negli anni novanta ad obbligarci a tornare sui nostri passi e a vedere quello che non funzionava nelle nostre tecniche legate ostinatamente al “qui e ora”, modello clinico che si affidava, forse troppo, all’auto-regolazione del paziente nevrotico. Scollegato da tutti i pensieri evolutivi che caratterizzavano i fondamenti teorici psicoanalitici, in gestalt non veniva considerato che l’autoregolazione non è possibile nel lavoro con pazienti che soffrono disturbi gravi di personalità o psicotici. Oggi sarebbe impensabile, e pure irresponsabile, pensare ad un lavoro clinico che non consenta un inquadramento evolutivo.

Un altro aspetto che poche volte consideriamo è quello che riguarda il fatto che in tanti passaggi di Gestalt Therapy i fondatori, nel loro straordinario intuito, ci hanno regalato una mappa dell’estetica del comportamento umano anche a livello neuro-funzionale. L’intuito dei fondatori coincide in tantissimi aspetti con le novità delle neuroscienze del presente, un argomento che merita un articolo a se stante…

Man mano il tempo è passato, la modernità ci ha dimostrato che i pazienti e le malattie mentali sono diventati sempre più gravi: P. Goodman e F. Perls non potevano immaginare che la società liquida di Z. Bauman portasse tanti aspetti nuovi, e in un certo qual modo disastrosamente distruttivi per l’umanità. A questo punto la supervisione ha il senso di permetterci di danzare con i nostri fantasmi, tanto personali quanto clinici, per affrontare le nuove sfide sociali, sempre crescenti.

La diversità nel modello clinico della PdG, un aspetto complesso che fa della psicopatologia e della supervisione del lavoro clinico un problema non sempre risolvibile, mi ha fatto cercare un criterio d’integrazione tra diversi pensieri e il mio. Ho considerato come criterio epistemologico mediano quello che proviene dal lavoro di ricerca di Madeleine Fogarty (*) per il suo valore scientifico, perchè -per prima volta nella storia della Psicoterapia della Gestalt- essa segue un protocollo scientifico comune ad altre discipline di ricerca, e per la relativa probabilità di trovare punti d’accordo veri nei diversi ambiti e orientamenti del mondo gestaltico. La mia attenzione si concentra, in quest’articolo sulla relazione tra terapeuta e paziente, non spiegherò “il come fare una supervisione”; poiché è cosa nota a tutti gli psicopatologi e terapeuti supervisionionati.

 

Possibili criteri di supervisione

 

La supervisione nell’ambito formativo come simulata del setting clinico ha un grande valore, se la pensiamo come piattaforma di sperimentazione. L’allievo trova nella pratica della simulazione un modo d’integrare le proprie difficoltà e metterle in relazione a quelle del paziente. Ma se pensiamo alla simulazione come base permanente del modello clinico da seguire, troveremo un limitato e sempre ripetuto blocco della qualità relazionali tra terapeuta e paziente: un modello più che altro legato alla confluenza, che perde freschezza nella propria riedizione. Paradossalmente, ? stato questo modello che mi ha fatto riflettere sul criterio di supervisione integrato che oggi penso anche come modello di crescita personale del terapeuta.

Il supervisore, “collega supervisore”, ha un ruolo paritario, non asimmetrico come quello dello psicoterapeuta: questa differenza farà del lavoro in supervisione un esercizio di condivisione e “di intervisione” rispetto a quanto si mette in discussione. Un campo fenomenologico allargato, però non visibile al paziente, una “triade” complessa dove il lavoro clinico non si esplicita solo tra due persone. Un “momentum” di onestà clinica dove il terapeuta affronterà le proprie difficoltà e non solo le difficoltà del paziente. Uno spostamento del “focus” diadicamente legato al paziente per vedere un lato inaspettato del rapporto clinico, la difficoltà del terapeuta ad affrontare la novità clinica e non solo l’impossibilità di crescita esperienziale del paziente. Il terapeuta non è mai completamente neutrale quando si parla del proprio sentire clinico, poiché l’oggettività deontologica non deve confondersi con l’oggettività percettiva. Questo contatto intersoggettivo ha il potere di creare una carta d’identità relazionale tra terapeuta e paziente (S. La Rosa “3” Aggressività Sessuale, Pizzimenti ed altri 2015). Questa identità si evolverà in modo continuo ma resterà per sempre come un segno di appartenenza della relazione clinica.

 

 

Estetica del setting come aspetto triadico della relazione clinica

 

Così come non possiamo separarci oggi, dagli aspetti evolutivi che hanno creato lo sfondo relazionale del paziente nella sua storia personale, questi aspetti costituiscono il campo situazionale del paziente nel presente. Dobbiamo fermarci un momento per riprendere gli aspetti che hanno reso possibile che il paziente arrivi da noi secondo la propria modalità: quali sono i contatti scontati che hanno modulato il suo corpo; in che modo il paziente si è adattato (G T, Goodman ….Gestalt Therapy 1/29,30 3/70,73,80 ecc, 1951) e quali sono i contatti significativi che, come in un insieme, hanno delineato la definizione di sé con cui si presenta al terapeuta; come lo sfondo corporeo ha reso possibile creare la figura del sé del paziente che interagisce con il mondo. Il paziente ha dovuto faticare tutta la sua vita per arrivare a noi terapeuti nel modo in cui lo fa.

 

Nel nostro modo di pensare la clinica della Psicoterapia della Gestalt vediamo il paziente legato alle esperienze primarie: come ha interpretato il mondo e con quali strumenti ermeneutici (competenze, se ci soffermiamo sul pensiero di Daniel Stern, domini se consideriamo il pensiero di Margherita Spagnuolo Lobb), si apre alle novità del campo, in questo caso anche quanto il terapeuta ha lavorato su di se per non creare, con la propria storia relazionale, un blocco eccessivo nel fluire del spontaneità clinica. Anche il terapeuta modificherà il campo in cui si trova con il paziente.

Con questo voglio dire che il terapeuta porta un proprio bagaglio di Gestalt aperte, che potrebbe inibire l’energia del contatto con il paziente, in certo modo creare un blocco nel fluire della relazione clinica. Un’idea che Goodman inserisce a pagina 244 di Gestalt Therapy nella versione italiana, per esemplificare un esperimento clinico, riguarda anche il terapeuta che non sempre libero dalle proprie incompetenze, pregiudizi e giudizi, da rifiuti o esagerata empatia, da ideologie politiche e criteri religiosi o morali che potrebbero creare distorsioni nel contatto spontaneo tra terapeuta e paziente: un tipo specifico di contatto, se fosse fluido, che la relazione clinica richiede per essere appunto clinica. Di fronte a questa evidenza inesorabile ci rimane il dubbio su come “utilizzare” positivamente questo “ostacolo” trasformandolo in risorsa, ovvero trasformare il se del terapeuta in cassa di risonanza compatibile con le difficoltà che il paziente porta nella relazione al confine di contatto clinico.

 

A differenza di altri approcci clinici, la Psicoterapia della Gestalt tenta di “utilizzare” tutte queste possibilità come elementi preziosi del campo. Lo psicoterapeuta della Gestalt che ha lavorato e lavora ancora su di sé, mette al confine di contatto queste idee (proprie) come un bagaglio di sensazioni tanto emotive quanto fisiologiche e non come contenuti o pensieri; ciò per non sottostimare la percezione del paziente, che, nel proprio intuito e con la propria storia personale si crea un’idea del terapeuta. Il sé del paziente funziona come una membrana elastica fra l’io, soggetto della parola che diventa organismo e si rimodula facendo da ascoltatore, e il soggetto di osservazione (A. Sichera, “4” Psicoterapia Della Gestalt e Ermeneutica Clinica, 2011) un modo forse complesso di dire che le parole diventano specchio delle sensazioni, dove il terapeuta o il paziente si fanno riconoscere dall’altro a livello percettivo.

Il terapeuta sarà osservato più profondamente o percepito in coerenza con la carica emotiva del paziente, un vero richiamo alla relazione clinica che emerge come sintomo o mancanza al confine di contatto tra terapeuta e paziente. Più profonda é la gestalt aperta portata nel setting più forte sarà la percezione, non sempre consapevole, del paziente in attesa della risonanza del terapeuta. Un movimento dell’energia fenomenologicamente fluido che ha una valenza doppia di andata e ritorno: al di là delle parole che il terapeuta pensa convincenti, le sensazioni percettive diventeranno vero sfondo a supporto della qualità relazionale.

D’altra parte la percezione diadica o relazione a due è più un’idea che una realtà: il terapeuta pensa e sente il paziente in relazione con qualche altra persona che emerge nel racconto soggettivo del paziente stesso, e il paziente sente e pensa al terapeuta in relazione a qualche altra persona legata al proprio racconto. Un’idea adesso distante del concetto di trasfert e contro-transfert della Psicoanalisi. Ecco un esempio semplice:

 

Il paziente parla della madre, e:

“Il terapeuta immagina (e sente) il paziente con la madre, il paziente con sé stesso terapeuta, sé stesso come partner della madre o come madre.

Il paziente pensa o sente il terapeuta come padre o madre nella circostanza del racconto, ovvero incarna in un certo qual modo l’aspetto emotivo e sensoriale della relazione primaria.

Questo fluire dell’energia crea una nuova lettura dell’esperienza vissuta dal paziente, una novità nel modo di percepire la propria esperienza (in questo esempio, la percezione dell’esperienza con la madre).

 

Questo modello clinico, ancorato all’esperienza percettiva del bambino, adesso nel proprio processo evolutivo, ora paziente adulto, ci riporta al pensiero di D. Stern quando afferma che il bambino impara a “essere-con” nel mondo. La relazione primaria si ripete nella relazione clinica, nuovamente, non come contenuto piuttosto come sensazioni che tanto il paziente quanto il terapeuta sperimentano nel processo clinico. In tal senso non parlo di contenuti specifici dove paziente e terapeuta “vedono l’altro come chi non è”, piuttosto mi riferisco a processi percettivi dove si sperimenta l’altro come si é imparato a sperimentare fin dall’inizio della vita. Come affermato prima, più come contatti scontati e processi della memoria corporea percettiva e “troncale” che come idee o memoria corticale “oggettiva” o “ippocampale”. Un esempio interessante di questo sfondo percettivo lo possiamo trovare nel capitolo 5 del volume “Il Now For next Next in Psicoterapia”, dove M. Spagnuolo Lobb parla del complesso fluire dell’energia del campo triadico.

l’immagine è riprodotta con l’auorizzazione dell’autore

Possiamo pensare anche che nella pratica clinica in generale, tanto analitica come gestaltica, certi “strumenti ermeneutici” o competenze del contatto sono la base per creare una cornice chiara di lavoro. Il terapeuta e il paziente arrivano al setting con le proprie competenze relazionali. Il terapeuta porta questi strumenti nel setting anche quando non ha idea di portarli; un terapeuta, non necessariamente formato epistemologicamente, smette di fare il suo compito e di sostenere i processi percettivi primari del paziente; anche quando sono inesorabilmente presenti. Un terapeuta anche cieco dal punto di vista teorico appoggia la sua riflessione clinica sulla percezione sensoriale del paziente. La cosa importante è il modo attraverso cui interviene clinicamente al confine di contatto, cosa farà per favorire l’apertura alla novità clinica, senza alleanze né rifiuti di quanto emerge nel setting.

Anche con questo sfondo così irregolare, la Psicoterapia della Gestalt possiede un’identità relativamente uniforme quando si parla di pratica clinica. (M. Fogerty “5” Quaderni di Gestalt, 2017)

 

La qualità del contatto clinico

 

Quando leggiamo la definizione di contatto in “Gestalt Therapy” (pagina 175 edizione italiana), non ne esiste solo una bensì diverse, con 27 chiarimenti, tutti interconnessi; in linea generale, l’interruzione di contatto è definita come una difesa nel confronto di “minacce che gli provengono dal basso”, ovvero un soffocamento della libera eccitazione con cui il sé provvede energia per sperimentare una novità, l’intenzionalità di contatto stessa si blocca prima di raggiungere il contatto nutriente; quest’idea intoccabile per tanti anni, oggi potrebbe essere interpretata in modo differente. Venendo al libro fondativo troviamo sono solo una definizione coerente con lo sguardo “moderno” in cui l’interruzione di contatto si vede come opportunità di riorientamento dell’energia e non solo come blocco (capitolo sulla struttura della crescita del Gestalt Therapy). In questo capitolo si avverte la possibilità di pensare l’interruzione di contatto come una pausa che riorienta l’energia cercando nuove risorse per arrivare al contatto possibile.

 

Grazie a questo possiamo osservare l’interruzione come uno strumento ermeneutico che ci orienta al contatto in modo diverso, un riorientamento dell’energia che, come adattamento creativo, ci permetterebbe una nuova strada per giungere alla pienezza relazionale. Questa sfida alla teoria originaria, non sviluppata in altri passaggi del libro, comporta diverse e complessi aspetti: la modalità con cui l’individuo blocca l’energia verso l’ambiente può diventare tradizione problematica e sintomo (A. Sichera, “6” Psicoterapia della Gestalt e Eremeneutica Clinica 2011). Può creare un blocco definitivo del sé, che, abituato a questo limite, si adatta a un contatto di bassa energia, di bassa qualità e in un certo modo limitato la maggior parte delle volte che è chiamato a soddisfare la funzione es, negando la novità e la propria crescita.

Vedere l’interruzione come strumento ermeneutico di lavoro, cosa in cui crediamo, ci obbliga a considerare positivo anche ciò che dal punto di vista del contenuto non lo è. Nuovamente, dobbiamo fare i conti con un terapeuta che riesce a vedere questa opportunità come il piano su cui appoggiare il lavoro clinico, un clinico che riconosce consapevolmente le proprie interruzioni esplorando anche cosa suscita nel terapeuta questa modalità del paziente e come essa sarà inserita al confine di contatto per diventare strumento clinico. In altre parole attraverso le sensazioni del terapeuta che nota una modalità nel paziente rappresentano la base della relazione empatica, laddove è possibile che essa si sveli. Nella supervisione, lo sguardo del supervisore si ferma particolarmente a questo aspetto per creare una diagnosi della relazione terapeuta-paziente al di là della logica diagnosi del paziente.

 

Criteri ermeneutici e fenomenologici basilari dell’osservazione nella supervisione

 

Possiamo a questo punto capire che il paziente non è una “tabula rasa” così come non lo è il terapeuta. Come dicevo prima, nessuno dei due arriva al setting senza la propria storia esperienziale. Su questa base ci sono aspetti da considerare prioritari per lo sguardo clinico, e questi criteri ermeneutici di osservazione sono alla base del lavoro di supervisione:

 

1) comprensione oggettuale del campo fenomenologico del paziente

Intendo la comprensione chiara del campo situazionale del paziente da supervisionare (età, momento del vitale personale, luogo in cui abita, situazione lavorativa, affettiva e familiare, etnia, orientamento sessuale, ecc.), una lettura contestuale del campo che ci consenta di individuare la situazione presente del paziente.

Questa lettura, se la pensiamo in maniera triadica e non diadica apre una prospettiva di campo laddove ovviamente il terapeuta assume una parte attiva del processo. Non solo il terapeuta è modificato dal campo situazionale ma allo stesso tempo lo modificherà. Anche involontariamente, il sé, tanto del terapeuta come del paziente, saranno modellati fin dal primo momento dell’incontro clinico: un fenomeno che obbliga il terapeuta a considerare il modo di contestualizzare il proprio confine, come affermerebbe P. Goodman: una rimodulazione che si inserisce come primo step del processo clinico.

Su questo aspetto è necessario fare decisi chiarimenti. Così come per un paziente occidentale essere guardato negli occhi dal terapeuta sarebbe un segno di buon senso ed empatia, per un paziente africano sarebbe stregoneria e per un paziente orientale estrema confidenza e invasione. Il campo situazionale ci parla anche delle cose che il paziente soffre in modo individuale ma che appartengono al suo gruppo identitario o sociale. Un esempio da considerare è quello dei sopravvissuti nei campi di concentramento, i quali, pur avendo un’identità religiosa chiara e definita, sperimentavano una propria lettura della realtà non condivisa con il gruppo di appartenenza, cosa che obbliga il terapeuta a non fermarsi nella comodità degli aspetti generali piuttosto nel comprendere come questi aspetti hanno trasformato il sé del paziente. Questi aspetti “ermeneuticamente oggettivi”, mai lo sono nel senso assoluto della parola. Un campo situazionale (*) oggettivo non parla dell’oggettività assoluta, cosa impossibile, piuttosto del “senso di realtà” del campo e della profonda influenza di questo campo nel sé del paziente.

 

2) Comprensione soggettiva del campo co-creato tra terapeuta paziente

In che modo il paziente sente la “situazione” e gli ambiti in cui vive e si relaziona? In che modo il terapeuta sente la storia che il paziente porta nel setting? Che impressione lascia nel terapeuta l’aspetto fisico e l’odore del paziente, quali aspetti rilevanti del paziente sono figura nel “sentire” del terapeuta ?

Questo processo del “sentire” potrebbe avere una valenza anche fisiologica nel terapeuta: quali sono le sensazioni fisiche e organiche che il terapeuta sente durante il lavoro con il paziente supervisionato e cosa sente mentre racconta tutto ciò al supervisore ?

 

3) Restituzione al paziente

Il terapeuta può interrogare il paziente su come sente il terapeuta mentre si racconta. Domande relative anche a questioni fisiologiche, (le stesse sensazioni riportate nel criterio 2). Il terapeuta può mettere in campo le proprie sensazioni sotto forma di domanda utilizzando la risonanza del campo come modalità di co-creazione. Il supervisore concentra la sua attenzione nel fluire delle esperienze condivise tra terapeuta e paziente.

 

4) Proprietà del focus “A” laddove si concentra l’attenzione del supervisore…

L’attenzione sul paziente supervisionato riguarda il tipo di intervento da “seguire-con”, dove il terapeuta sceglie la modalità di lavoro clinico e riconosce i limiti degli interventi visibili. Si intende la probabile modalità relazionale e le competenze acquisite, lette come contatti scontati (*) o come sfondo del processo che il paziente vive, e le sensazioni che il paziente prova mentre racconta il suo processo; la probabile diagnosi personale e situazionale, i sintomi e i blocchi della resilienza (S. La Rosa “7” Empatia e Frustrazione FigurEmergenti, 2016) i farmaci che assume, le abitudini e routine, le competenze relazionali più importanti che il paziente ha sviluppato come sua modalità di affrontare la novità, lette come contatti significativi da parte del terapeuta.

 

5) Emergenza del campo fenomenologico nel setting o focus “B” Laddove si concentra l’intervento del supervisore con il terapeuta supervisionato

 

Questo aspetto narra il blocco relazionale tra terapeuta e paziente, ovvero quando il racconto e la modalità del paziente “paralizzano” la spontaneità clinica del terapeuta. I contatti scontati del terapeuta trovano nei sintomi del paziente, un’occasione per la scoperta delle proprie competenze non ancora sviluppate. Il terapeuta si blocca nei confronti dei blocchi del paziente, non sui contenuti, ma sul processo: per questo parliamo del blocco inconsapevole del terapeuta che si scopre perplesso su come intervenire. O circa contenuti confluenti dove il terapeuta si “identifica” con il racconto del paziente e confonde la confluenza con l’empatia (S.La Rosa “8” Empatia e Frustrazione FigurEmergenti. 2016). Questo step mette alla prova la capacità del terapeuta di trasformare il sintomo in risorsa. Emerge un blocco della resilienza che involontariamente anche il terapeuta sostiene.

L’intervento del supervisore avrà un particolare impatto nel momento in cui il blocco del paziente emerge come un blocco del terapeuta, sarà giustamente qui che la supervisione acquisirà valore di sostegno nella crescita del terapeuta, e sarà qui dove il terapeuta potrà appoggiare il proprio lavoro con il paziente in maniera empatica. Un’empatia incarnata vera e non immaginaria che trova la base della crescita della relazione clinica nelle difficoltà condivise. Il terapeuta vede nella sua sensibilità una possibilità di crescere insieme il paziente, di aprirsi onestamente alla novità. Quest’esperienza condivisa di crescita non ha il valore dell’identificazione confluente piuttosto un modo di mettere nel campo le risorse che, né terapeuta né paziente pensavano possibile prima del loro incontro.

 

Il concetto di risonanza come fenomeno inter-percettivo nel setting (e non solo). La risonanza come sostegno dell’intervento clinico

 

Quest’idea di risonanza, che prendo dal pensiero di Margherita Spagnuolo Lobb (*), formula in modo molto concreto il modello di osservazione e di intervento del supervisore. Pur sapendo che Spagnuolo Lobb utilizza quest’idea quando parla del processo evolutivo del contatto, comprendo che essa è fortemente collegata al rapporto clinico tra terapeuta e paziente per i motivi che ho chiarito prima. Grazie a questo sfondo, la supervisione acquisisce un tipo di spessore che mette in rilevanza le sensazioni e le percezioni che emergono dal lavoro clinico.

L’intuizione reciproca che tanto il terapeuta quanto il paziente si anticipano nei gesti dell’altro saranno il fondamento dell’esperienza condivisa, un modo di valorizzare le novità (nuove esperienze) con le basi relazionali che ciascuno di loro trova nel proprio sé. Questo lavoro di applicazione pratica delle esperienze individuali e reciproche faranno dello sfondo clinico uno spazio sempre più solido e tangibile, che diventerà quasi dicibile una volta evoluto.

Possiamo trovare nel termine “risonanza” un modo di valorizzare profondamente la sensibilità che si sviluppa tra terapeuta e paziente al confine di contatto. Non si tratta dell’interpretazione del contenuto, del controtransfert o trasfert psicoanalitico. La risonanza parla semplicemente del “sentire”, tanto emotivo quanto fisiologico, che al confine di contatto fa emergere, tra terapeuta e paziente, un tipo specifico di energia. Questo “sentire”, che secondo il nostro sfondo fenomenologico sia terapeuta sia paziente esplicitano consapevolmente attraverso gesti e non solo a parole, aggiungono nel setting la novità sensibile della percezione dell’altro. Non parlo della capacità di indovinarsi, ma della capacità di mettere nel campo il pezzo “non detto” che riguarda la sensazione percettiva del terapeuta quando vede il paziente. Questa è fondamentalmente la sensazione percettiva del supervisore quando sente, e vede, il racconto del terapeuta supervisionato.

Un terapeuta della Gestalt può dire al suo paziente la sensazione soggettiva che un racconto del paziente suscita in lui, come può stimolare il paziente ad esplicitare le cose che sente quando guarda il terapeuta o lo ascolta. Queste sensazioni comprese in modo molto riduttivo, come trasfert e controtrasfert nella Psicoanalisi, sono, per un terapeuta fedele alla nostra fenomenologia della Gestalt, veri strumenti ermeneutici di lavoro clinico. In questo caso, il terzo criterio di questo articolo.

La risonanza parla della percezione soggettiva che il nostro sé fa dell’esperienza nel qui-ed-ora, mettendo in movimento i contatti scontati del terapeuta e non solo quelli del paziente, per aprirsi alla novità e creare nuovi contatti significativi (*) nel lavoro clinico, cioè l’esperienza che ci consente di mettere nel campo il “io sento che tu senti che io sento” è una percezione che non trova la sua base nei contenuti del racconto, ma nel processo percettivo che questo suscita nel campo stesso.

Fin qui ciò che funziona quando funziona: però sappiamo che in supervisione sono poche le volte in cui il terapeuta ci porta esempi fluidi di lavoro clinico. Il terapeuta smette di risuonare con un paziente che evoca in lui i propri momenti di frustrazione, ed è proprio qui che il blocco prende forma. Le sensazioni del terapeuta si bloccano lì dove la propria esperienza ha lasciato in lui una Gestalt aperta, una esperienza inconclusa e insoddisfacente, come estrinsecato nel quinto criterio, un momento di assenza dove il contenuto prende il controllo della terapia, un’uccisione parziale del processo spontaneo.

Le strade che si aprono a questo punto sono diverse: o il terapeuta va in confluenza con il paziente creando una vera e dannosa alleanza, (“io sento, (o) ho sentito le stesse cose che senti tu…”, che non sempre viene esplicitata nel campo) o si differenzia da lui, (“questo che mi fai sentire fa rivivere in me un mio trauma o tu fai rivivere in me vecchie sensazioni che rifiuto”).

Un’altra possibilità, se il terapeuta ha più esperienza nel lavoro fenomenologico, potrebbe essere quella di fermarsi alle proprie sensazioni trasformando il blocco in energia fluida. Chiedendo al paziente: “Come senti me adesso? Come ti senti quando mi racconti questo? Quale sarebbe la risposta che ti aspetteresti da me adesso?

Queste domande, quasi ingenue, proposte generalmente dal supervisore, rimettono il focus sul sentire del paziente e le logiche differenze invisibili nel momento di confluenza del terapeuta: tale strada crea una nuova figura nel sentire del paziente offrendo alla relazione clinica un’opportunità per uscire dal blocco.

Un aspetto che sarebbe meglio non dimenticare è che non solo il terapeuta risuona nel paziente ma accade anche, viceversa, al paziente (“io so che tu sai che io so”). In un certo qual modo la risonanza funziona come traduttore delle sensazioni fisiologiche ed emotive della relazione. Questa rappresenta la vera sfida clinica: mettere nel campo ciò che al terapeuta non sempre fa piacere ammettere, rischiando di tacere e creare del “non detto” sempre percepito dal paziente, un blocco ancora più profondo di sfiducia nel rapporto clinico. In un certo senso voglio dire che non c’è modo di dire una cosa per un’altra o di tacere senza rischiare la salute della relazione clinica.

 

Una conclusione approssimativa

 

Pensare la pratica clinica come un modello non separato dall’idea che la Psicoterapia della Gestalt ha della relazione stessa, ci immette nel nucleo della responsabilità relazionale. Una relazione è la conseguenza dell’intenzionalità reciproca che ogni individuo mette al confine di contatto. L’identità della relazione dipende dall’energia che prende forma al momento del contatto: alla fine, la qualità della relazione clinica possiede la qualità dell’energia di ogni individuo che costituisce la relazione. Un’idea che da tempo ha modificato fortemente il mio pensiero etico e clinico.

Ricordo di essere stato colpito dal pensiero di J. Lacan che, nel suo seminario due, afferma che “la resistenza del paziente è la resistenza del terapeuta”. Tale affermazione, ovviamente vera, rimaneva rinchiusa nello split di una visione clinica intrapsichica, non fenomenologica e ignara dell’idea di co-creazione. Nel concetto stesso di resistenza si può vedere l’assenza di co-responsabilità. Quindi affrontare la responsabilità significa anche affrontare un’opportunità di crescita: il paziente arriva da noi con la necessità di essere riconosciuto, ascoltato e legittimato nel proprio dolore. I terapeuti non sono diversi. Tutt’oggi, quando pensiamo all’incremento delle malattie mentali, alla soglia sempre più alta del criterio di nevrosi e alla forma di normalità che hanno acquisito i disturbi d’ansia, pensare agli psicoterapeuti al di fuori di questa evidenza diventa cinico e poco rispettoso nei confronti dei nostri pazienti. L’idea di una supervisione responsabile e onesta ci ricorda la nostra perenne ricerca di pienezza in questa società sempre più complessa e precaria.

 

Sergio La Rosa
Venezia, Buenos Aires

Luglio, Settembre 2017

Ti potrebbe interessare anche...