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La cura è il contatto

La cura è il contatto

Il contatto è lo strumento centrale della cura in psicoterapia della Gestalt, l’articolo offre agli psicoterapeuti in formazione delle riflessioni e degli strumenti per instaurare e mantenere il contatto con il  paziente nel difficile campo della seduta quando il temi a cui è interessato il paziente sono vissuti sessuali. Carla Cerrini psicologa e psicoterapeuta; didatta Fisig; docente del corso di approfondimento “Sessualità e dipendenze” presso scuola di psicoterapia “Scuola Gestalt di Torino” (riconosciuta dal MIUR, DM 29.1.02 – GU n° 42 19.2.02); collabora con la scuola di psicoterapia  “Istituto di Psicoumanitas” (riconosciuta MIUR D.M. 02/11/2005-G.U. Del 11/11/2005); collabora con la Scuola di Counseling “Istituto Miriam Polster”; lavora come libera professionista  a Firenze dove svolge l’attività di  supervisione per équipe e singoli, e l’attività di psicoterapeuta per individui, coppie e gruppi.

 

La  capacità di stare in contatto con l’ambiente, come ampiamente trattato in letteratura, è lo strumento fondamentale nella pratica terapeutica della Gestalt. “Il contatto è proprio il senso dell’interfunzionamento unitario in atto tra voi e il vostro ambiente; il processo del porsi in contatto comporta la formazione e il successivo acuirsi del contrasto figura-sfondo… Per voi, quindi, in quanto essere vivente, il contatto è la realtà ultima.” (P.H.G. 1971,  p. 91). E più avanti: “Quando il sé può manifestare un contatto e andare avanti in una situazione di emergenza, la terapia è terminata.” (P.H.G. 1971, p. 478).

Al terapeuta quindi, per essere efficace, è richiesta la capacità di stabilire il contatto con il paziente e mantenerlo, sostenerlo nel riconoscere come lui ha interrotto la sua intenzionalità di contatto e nel ristabilirla per ritrovare la capacità di cogliere nell’ambiente ciò di cui ha bisogno, entrarci in contatto e assimilarlo. Al terapeuta non è richiesto di conoscere tutti gli aspetti del contenuto a cui è interessato il paziente, né tanto meno averne esperienza diretta.

Non tutte le sedute sono caratterizzate da questo processo, il ciclo di contatto, così chiaro e completo, ma quando avviene paziente e terapeuta lo sperimentano come un magico “quid” che produce la trasformazione. Robert Resnick con una vivace metafora definisce questa esperienza: “fresh fish”, “pesce fresco” (Resnick, 2015).  L’odore è la prima cosa che si apprezza del pesce fresco e, viceversa, ci disgusta quando non lo è. Il solo pensiero evocato da queste due parole fa arricciare il naso e, con immediatezza, riporta alla consapevolezza dei sensi: la terapia funziona quando si arriccia il naso, quando si vive un’esperienza sensorialmente vivida.

 

I due poli della sessualità

La sessualità presenta due poli opposti ed estremi. Uno porta con sé la sensualità, il piacere, il calore affettivo, la gioia, il gioco, l’apprezzamento reciproco e può elevarsi ben oltre, fino all’amore e alla trascendenza.

Attraverso il sesso siamo in grado di generare la forma di vita più evoluta che abita il pianeta: l’essere umano. In questa creazione attraverso la sessualità, chi ha una fede diventa il tramite di Dio, gli atei e gli agnostici diventano i tramiti di un Mistero. La nostra  stessa vita è arrivata su questa terra attraverso i nostri genitori che hanno scelto, con  l’amore e la consapevolezza di cui disponevano, di essere i nostri tramiti. E ciascuno di noi può essere il tramite del perpetuarsi della vita, il “grande Mistero” che non possiamo conoscere attraverso la ragione. Per questo la sessualità è vicina alla trascendenza.

Le scuole tantriche in India intorno al XIII secolo AC (Watts, 1980) e secondo altri A.A. già in tempi più remoti, hanno onorato la sessualità come via di conoscenza di quel Mistero e del Principio Assoluto che anima l’Universo: “Il Tantra non è a favore del sesso: è a favore della trascendenza” (Osho Rajneesh, 2003, p. 48). Questa visione della sessualità è appartenuta alla Cina, al Tibet, al Giappone, agli indiani di America ed è presente anche oggi; scrive Bauman: “L’amore è simile alla trascendenza; non è che un altro nome per definire l’impulso creativo…” (Bauman, 2003, p.11).

L’altro polo della sessualità è molto lontano dal primo. È intriso di vergogna, di peccaminosità, di dolore, di rabbia, di paura e di violenza, qualche volta di orrore raccapricciante, al punto da rendere difficile comprendere che questi due poli siano gli estremi di una  stessa realtà. All’origine di questi vissuti si trova la condanna rivolta al sesso, nel corso della storia, da molte culture e molte religioni che vi hanno costruito intorno regole morali e codici di comportamento allontanando gli uomini da questa parte di se stessi (Foucault, 1976).

Poiché la sessualità esprime un’intenzionalità di contatto sostenuta da bisogni sia fisiologici sia relazionali, se interrotta non si estingue e l’organismo tenderà a cercare la soddisfazione di quei bisogni in comportamenti diversi e lontani dalla sessualità, in comportamenti “perversi” nella accezione etimologica: “lontani dalla direzione originaria”, in “parafilie” in termini diagnostici (Signorelli, 2014).

Chi non è consapevole dei propri bisogni rischia di cadere in una ricerca ossessiva di esperienze sostitutive all’inseguimento di un piacere che sarà sempre insoddisfatto, perché queste esperienze non sono atte a soddisfare il bisogno originario. Dalla sua prospettiva sociologica Bauman dipinge un quadro dei disagi in cui è immersa l’umanità contemporanea e ne attribuisce l’origine alla scissione dell’erotismo dalla sessualità e dall’amore che, prosciolti da regole morali e sociali, sembrano vivere di vita propria, ma a scapito della soddisfazione affettiva, emotiva e relazionale (Bauman 2013, p. 78).

 

Le difficoltà del contatto in terapia quando i contenuti sono sessuali

 

Fra questi due poli così lontani si estende un mare con mille increspature diverse, le espressioni soggettive della fenomenologia della sessualità: cosa sente, cosa pensa, come si rappresenta, come si comporta, cioè cosa fa una persona nella esperienza sessuale. E poiché la sessualità è parte dell’organismo, la sua fenomenologia non si limita all’atto sessuale, è sempre parte della vita.

Se come affermato all’inizio, il contatto è alla base della pratica della Gestalt, come realizzarlo quando il paziente porta nel campo vissuti sessuali?

Se si tengono presenti la funzione di contatto e l’attenzione al processo, si potrebbe immaginare che non esista una specificità nella terapia della sessualità e che l’insegnamento della Gestalt su come fare terapia sia sempre uguale per affrontare  questo o qualunque altro contenuto. Il compito del terapeuta resta quello stabilire una relazione autentica con il paziente:  essere presente al confine di contatto, consapevole delle sensazioni che percepisce dall’interno della  pelle; delle emozioni; di tutto ciò che, presente nel campo e fuori della sua pelle, percepisce attraverso i suoi sensi; di ciò che non è presente materialmente nel campo, bensì lo è nella sua attività mentale, nel pensiero, nell’immaginazione, nel ricordo del passato o nell’anticipazione del futuro.

Questo compito di per sé non semplice, è reso più difficile quando il paziente porta nella seduta i vissuti sessuali. Al terapeuta può capitare di ascoltare la narrazione di comportamenti lontani dalla sua esperienza e a condividere emozioni intense che non ha necessariamente sperimentato, oscillanti fra quei poli estremi della realtà sessuale.

 

La prassi terapeutica

Il modello della Gestalt offre molte riflessioni possibili su come lavorare in terapia sui vissuti sessuali, le due seguenti sono fra quelle di grande sostegno nella seduta:

  • la prospettiva fenomenologica;
  • la consapevolezza del  processo.
La prospettiva fenomenologica

Per  stare in contatto con il paziente in difficoltà con i vissuti sessuali, è fondamentale che il terapeuta abbia esplorato su di sé cosa significa per lui/lei essere un “animale sessuato” e come si presenta agli altri con questa consapevolezza. È importante l’accettazione di essere incarnato in un corpo sessuato non solo quando agisce la sessualità, ma in ogni istante della sua vita. Nella visione olistica dell’essere umano la sessualità permea l’organismo piuttosto che essere una sua parte. Sentirsi a proprio agio in questo campo riguarda quindi la fisicità prima ancora che la sessualità. La riflessione da proporre  ad ogni futuro terapista è: “Com’è per te mostrarti < Animale sessuato>?”. Altrettanto importante è la domanda speculare: “Com’è per te entrare in contatto con una persona che si mostra sessuata?”1.

Nella pratica dell’insegnamento questo tema viene sviluppato attraverso molteplici esercizi che prendono l’avvio da prospettive diverse in modo da evidenziarne i risvolti cognitivi, relazionali e affettivi, pur sapendo che sono sempre tutti compresenti.

Il primo passo è un esercizio strutturato attraverso l’approccio verbale e relazionale da sperimentare in coppie terapeuta-paziente. Alle due domande fondamentali se ne aggiungono altre che esplorano come la persona sperimenti la sensualità e la sessualità in singole parti del corpo, ad esempio  “Com’è per te toccare il corpo dell’altro/a?. Com’è per te essere toccato/a?”. Questo tipo di esplorazione si può ampliare fino a riguardare tutte le parti del corpo. La condivisione della propria esperienza con il compagno ruota intorno alla prima domanda: “Com’è per te mostrarti < Animale sessuato>”?. Così come l’ascolto del partner si riallaccia alla seconda: “Com’è per te entrare in contatto con una persona che si mostra sessuata?”1.  Successivamente si passa a esercizi corporei con particolare attenzione alla consapevolezza del respiro. L’esercizio deve sempre comprendere la verbalizzazione delle sensazioni, delle emozioni e la loro condivisione con  i compagni di lavoro. Il terzo approccio è quello della meditazione condotta  attraverso tecniche derivate dal tantrismo. La specificità di questa tradizione era quella, comune a poche altre, di usare forme di energia di espansione e quindi piacevoli, per guidare la consapevolezza alla scoperta della propria fonte, dell’origine di se stessi. La maggior parte delle scuole di meditazione ha invece scelto  tecniche di deprivazione sensoriale fra le quali, come esempi, si può citare il silenzio e il digiuno.

Tutti questi esercizi sono semplici e tuttavia non risultano mai scontati. Ciò che dà loro senso è il contatto: secondo l’antico insegnamento zen non è importante ciò che si osserva, ma come si osserva. A riguardo sono da ricordare P.H.G. che – a  proposito dei loro esercizi di orientamento della consapevolezza, apparentemente semplici e innocenti – scrivono: “Questo lavoro, …, è ideato con lo scopo preciso di piantarvi delle grane…” (P.H.G.1971, p. 63). Lo scopo in questo contesto è quello di acquisire una sorta di semplicità e franchezza con la fenomenologia della sessualità, la propria e quella l’altro, compresa l’attenzione a come entrambi potrebbero nascondere il  proprio essere  animali sessuali.

Come terapeuti saremo più disponibili ad accogliere gli aspetti dolorosi e patologici della sessualità, ma anche quelli gioiosi, con tutte le sensazioni, gli stati emotivi e le infinite tonalità che il piacere offre: il gioco, il calore affettivo, l’apprezzamento di sé e dell’altro. Questi aspetti positivi devono essere accolti nella relazione terapeutica poiché fanno parte del lato sano della sessualità e se il terapeuta li taglia fuori, forse anche il paziente li taglierà fuori.

La consapevolezza del processo

Il  terapeuta e il paziente nel processo della seduta,  collaborano per permettere l’emergere della figura dallo sfondo; la figura che acquisisce via via più chiarezza,  luminosità e forza diventa una gestalt forte, mentre lo sfondo si svuota e perde di interesse (P.H.G. 1971, p.74 ). “La guarigione di un paziente avviene attraverso la formazione di una gestalt forte… il conseguimento di una gestalt forte è esso stesso la cura…” (P.H.G. 1971,  p. 250). Ciò che diversifica terapeuta e paziente è la reciproca “inversione” della figura e dello sfondo: il processo del qui ed ora della seduta è nella figura del terapeuta, mentre è nello sfondo del paziente; il contenuto portato è nella figura del paziente, mentre è nello sfondo del  terapeuta (Robine, 1982).

I vissuti del paziente, per quanto coinvolgenti possano essere, per il terapeuta non sono la figura che  invece è costituita dal processo in atto nel “qui ed ora”, quello che sta accadendo fra lui e il paziente nella seduta. È lo stesso processo che, inconsapevolmente, il paziente agisce nella sua vita reale. Malgrado il contesto dei racconti possa essere intriso di accadimenti sessuali, molto spesso l’interruzione di contatto da parte del paziente serve ad evitare un contatto doloroso di altra natura,  nel presente della sua vita così come forse è già accaduto nella sua storia. Un esempio è la masturbazione di cui scrivono P.H.G. (1971, p.196): “La masturbazione, inoltre, è spesso un tentativo di sfogarsi non affatto sessuale; ad esempio, la solitudine non-sessuale, la depressione, la noia…”

Nel passo della seduta riportata di seguito appare evidente l’uso delle riflessioni descritte su come lavorare con il paziente. A riguardo è utile ricordare che per fare diagnosi di disfunzione, disturbo sessuale o parafilia, secondo il DSM 5, dopo aver escluso altre cause (organiche, uso di droghe o di farmaci, ecc.), il sintomo deve essere presente da almeno sei mesi con una frequenza del 75% -100% (Proietti, 2015). Nel modello gestaltico, anche nei casi con diagnosi conclamata,  le difficoltà  sessuali vanno inquadrate come un fenomeno del campo dove trovano le loro radici nella relazione sia che solo il paziente dichiari il disagio sia che lo dichiari anche il partner (Cerrini, 2014; Signorelli, 2014). La cura, ancora una volta, si svilupperà nella relazione terapeutica dove il paziente potrà portare a compimento la sua intenzionalità di contatto interrotta.

 

Un caso clinico: Luciano

Luciano è un paziente di 50 anni, in terapia da tre anni, affetto da dipendenza sessuale, dedito a masturbazione e uso di pornografia compulsivi; molto attivo sessualmente anche con partner probabilmente affette da disturbo da masochismo sessuale e disturbo da sadismo, alle quali accetta di provocare dolore solo in seguito alla libera richiesta delle partner: “Io non provo piacere a infliggere dolore. Lo faccio solo per dimostrare che sono all’altezza di soddisfarle.”

L’attendibilità di questo comportamento, ormai approfondito in terapia molte volte, è stata comprovata anche da una sentenza di assoluzione completa, dopo un lungo processo dove era stato coinvolto da una partner particolarmente significativa nella sua vita, che l’aveva accusato di violenza sessuale per ottenere un  risarcimento in denaro.

Luciano mi ha parlato del problema della dipendenza sessuale dopo circa un anno  dall’inizio della terapia e comunque non prima che si fosse instaurata fra noi una buona alleanza terapeutica. Per me terapeuta le sedute riguardo ai suoi comportamenti sessuali non sono state sedute facili. Spesso era faticoso accettare il suo bisogno di raccontare i particolari dei suoi comportamenti. Nell’ascoltarlo ho seguito la mia intuizione che  questa condivisione per lui fosse importante e salutare, oltre alla conoscenza  teorica che, per questi pazienti, mettere alla luce del sole i loro segreti mitiga la sofferenza. Qui  è stato utile ricordare che la  figura per il terapeuta era il processo e non i racconti di Luciano.

Una delle acquisizioni che lo hanno sollevato e indirizzato ad una comprensione della sua dipendenza, è stata la consapevolezza che gli stati d’animo che accompagnano l’impulso della masturbazione compulsiva, sono la delusione e la rabbia rivolte verso se stesso: “Adesso lo so, nella masturbazione non è il sesso che cerco.” La masturbazione compulsiva non serviva a interrompere un’intenzionalità di contatto di natura sessuale.

Al tempo della seduta che riporto di seguito, non aveva ancora  individuato un oggetto a cui indirizzare queste emozioni.

Luciano  mi riferisce  un colloquio con un  dipendente di origine albanese intorno ad un fatto di cronaca: degli  uomini di colore  avevano “punito” una donna che si rifiutava di prostituirsi, tenendola segregata e stuprandola per un mese.

Il dipendente sembrava compiacersi del comportamento di quegli uomini e Luciano, come sua modalità, si è dilungato a lungo sul racconto del colloquio senza riuscire a far emergere una figura da queste parole. Invitato da me a mettere a fuoco cosa vi fosse di  importante per lui,  ha detto che, per vendicarsi o punire qualcuno, non trovava giusto coinvolgere il sesso con la violenza.

Gli ho chiesto come mai avesse usato tanta parte della seduta per raccontarmi questa storia: “Per aiutarti a capire.”

Io: “Ti ringrazio che ti preoccupi così tanto di me!”

Abbiamo riso entrambi.

Io: “Bene, allora vuoi dire: < ho parlato a lungo di questa storia per aiutare me stesso>?”

Luciano ripete e io chiedo: “Aiutarti in cosa?”

Sono seguiti molti secondi di silenzio e poi ha detto:

“A non cambiare.”

Questa affermazione l’aveva visibilmente emozionato;  gli ho chiesto cosa provava:

“Sono arrabbiato con le donne. È un mio nucleo profondo, coperto di terra e di sporcizia, come per  il mio dipendente.”

Io: “Credo che tu abbia dei buoni motivi per questo (riferendomi al processo che aveva subito). Sembra che ti sia difficile riconoscerlo. Che rischio corri se accetti questa tua parte?”

Luciano: “Di cambiare.”

Io: “Ti capisco. Il cambiamento di per sé è un grande rischio. Puoi dire qualcosa di più su questo rischio? In cosa consiste?”

Ancora qualche minuto di silenzio.

Luciano: “La paura di perdere mia madre. Mamma e nonna dicevano sempre che io ero buono. Che non avrei mai fatto male a nessuno…”

Io: “ La paura che tua madre non ti riconoscerebbe più! È così?”

Luciano: “Sì, è così. Forse anche io non mi riconoscerei più”.

 

Conclusioni

Questa seduta mostra con evidenza come la consapevolezza del processo e un precedente  lavoro personale del terapeuta sulla fenomenologia della sessualità, siano stati di grande sostegno nel lavoro. Il terapeuta ha mantenuto nella figura  la consapevolezza del  processo in atto con Luciano, lasciando sullo sfondo i particolari dei suoi racconti così che – solo dopo che il paziente ha individuato il vero oggetto verso cui erano indirizzate le emozioni della delusione e della rabbia – è emerso che il disturbo parafilico della masturbazione compulsiva fosse il sintomo di  una gestalt incompleta nella relazione con l’altro sesso, e non un’intenzionalità di contatto di natura sessuale.

  Questa riflessione mi è stata sottoposta in un seminario da George Downing

Bibliografia

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  • Bauman Z. (2003)  Liquid Love. On  the Frailty of Human Bonds. Polity Press, Cambridge e Blackwell Publishing Ltd, Oxford. ( trad.it.: Amore liquido. Gius. Laterza & Figli Spa, Bari, 2006).
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  • Foucault M. (1976) La volontè de savoir. Editions Gallimard, Paris ( trad. it.:  Storia della sessualità.  La volontà di sapere. Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1978).
  • Osho Rajneesh, (1974)  Vitgyan Bhairav Tantra. The book of the secrets. A new commentary. First series and Second  series. Rajneesh Foundation, Poona, 1974 ( trad. it. Il libro dei segreti. Discorsi su Vitgyan Bhairav Tantra.  Bompiani, Milano, 1974; I segreti della trasformazione. Bompiani, Milano, 2002; I segreti della Tantra. Bompiani, Milano, 2003;  I segreti della gioia. Bompiani, Milano, 2005; I segreti del risveglio. Bompiani, Milano, 2005).
  • Perls F., Hefferline R.F., Goodman P. (1951)  Gestalt Therapy: excitement and growth in the human personality,  The Julian Press, New York ( trad. it.: Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana. Astrolabio, Roma, 1971).
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  • Robine JM., (1982)  Figures de la Gestalt-thérapie. I.G.B. Bordeaux.
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  • Signorelli M. S. (2014) I Disturbi sessuali nel DSM 5Aspetti relazionali tra vecchie e nuove diagnosi.  Quaderni di Gestalt vol XXVII 2014/1 p. 58-64
  • Watts A. (1980) Spiritualità erotica. Stampa Alternativa Editrice, Roma.
  • Zingarelli N. (1971)  Vocabolario della lingua italiana. Zanichelli, Milano.

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