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Isha Bloomberg e i gruppi di formazione gestaltici

Isha Bloomberg e i gruppi di formazione gestaltici

Marilisa Cazzaniga, Andrea De Lorenzo Poz, Stefania Massara

Usiamo le parole di Charles Bowman per inquadrare l’ambiente culturale e lo sfondo storico in cui nasce la Terapia della Gestalt: “The rise of fascism, the Holocaust, the World War II were arguably the most influential factors in the development of Gestalt Therapy since Freud and Breuer development of the “talking cure” (trad. La nascita del Fascismo, l’Olocausto, la Seconda Guerra Mondiale sono stati presumibilmente i fattori più influenti nello sviluppo della Terapia della Gestalt dallo sviluppo della “Cura della Parola” di Freud e Breuer) (Charles Bowman, 2005 pag.12).  Da uno sfondo storico e culturale di terrore, fame e disperazione legato ad un momento di profonda ed evidente manifestazione del lato oppressivo, malvagio e distruttivo del genere umano nasce e risorge una visione dell’essere umano stesso capace di determinarsi, responsabile socialmente e in grado di “contattare” l’ambiente intorno a sé in modo adeguato e rispettoso. In questa forma mentis si sviluppa il pensiero che nutre e dà vita alla Terapia della Gestalt e alla sua concezione antropologica. Ancora estrapolando la lettura storico/contestuale di Bowman: lo spirito anarchico della terapia della Gestalt pare aver condotto molti suoi praticanti ad una frizione e ad uno scetticismo sovente radicali nei confronti dei sistemi accademici e dell’establishment medico ufficiale (Ivi). Anche Gaie Houston traccia le origini della Terapia della Gestalt nel Regno Unito in una sorta di campo risultante dall’elaborazione del precedente mezzo secolo (Gaie Houston; 1999) e descrive l’evoluzione di questo “prodotto” che attraverso gli anni ’60 giunge alla sua più intensa diffusione negli anni ’70. Proprio in quegli anni nel Regno Unito, prima, ed in varie parti d’Europa poi, Larry Isha Bloomberg crea e partecipa ad un movimento di grossa diffusione oltre che di formazione nell’ambito della Terapia della Gestalt. Trasferitosi in Italia continuerà poi la sua attività da lì e darà impulso alla formazione di gruppi e individui dalle cui idee, attività e professioni nasceranno organizzazioni e associazioni quali quella che darà poi vita alla nostra scuola. Negli anni ’80 in Italia si formano molti gestaltisti della cosiddetta terza generazione: tra questi vi sono i formatori più esperti del nostro istituto e proprio in considerazione di ciò abbiamo chiesto a Marilisa Cazzaniga (Gestalt counselor, psicologa, da anni formatrice della scuola Gestalt di Torino) di raccontarci in un’intervista la sua esperienza di apprendimento con Isha e di paragonarla al suo lavoro di formatrice nei tempi attuali.

All’interno dell’articolo troverete in corsivo brevi collegamenti teorici o spunti di riflessione, aggiunti successivamente dai curatori perché emersi durante la stesura e rilettura del testo.

 

Andrea: Ciao Marilisa, siamo qui per questa intervista sulla tua esperienza attuale che ti abbiamo proposto per Figure Emergenti: sei formatrice da parecchi anni all’interno della Scuola Gestalt di Torino, ma sei stata anche allieva all’interno dei gruppi di formazione fatti con Isha Bloomberg, formatore dei nostri formatori. Mi hai spiegato che all’interno dei gruppi di formazione con Isha, in cui tu eri allieva, c’erano anche altri formatori, tra cui erano Mariano Pizzimenti, che è oggi il nostro direttore, Mimma Turco e mi citavi anche altre persone che compartecipavano al lavoro. L’intervista che ti proponiamo vuole evidenziare la tua esperienza di lavoro, che è molto lunga, alla luce del tuo percorso formativo e della tua esperienza di allieva.

Quali caratteristiche metteresti in luce nel descrivere il lavoro fatto con Isha all’interno dei gruppi di formazione? Quale esperienza avete fatto come persone e come allievi all’interno dei gruppi condotti da Isha?

Marilisa: Isha diceva sempre che la situazione di base è che nessun essere umano è da solo. Per lui questo era proprio un terreno che sosteneva tutto il suo lavoro. Mentre dava molta importanza a questo aspetto non sosteneva per niente la confluenza del gruppo. C’è da dire che io ho sempre lavorato con gruppi che erano già formati: a Vignalino[1] arrivavano gruppi di formazione da tutte le parti d’Europa, per ampliare la loro preparazione insieme a lui. Erano gruppi con una loro struttura, una loro forma, composti da persone che si conoscevano già tra loro. Lui lavorava moltissimo sul rompere la confluenza: il metodo di crescita più rapido era il conflitto, la capacità di confrontarsi direttamente con gli altri e di entrare in conflitto senza temerne le qualità distruttive e potendo fare esperienza delle qualità costruttive. Isha era assolutamente un provocatore. Se c’era una situazione che stagnava per la paura di confrontarsi, qualcosa tipo “vogliamoci bene”, lui la rompeva immediatamente. Non accettava assolutamente questo tipo di passività dove non si muove nulla. Lui era un uomo d’azione e sosteneva moltissimo l’azione fisica. In tutti i lavori individuali che faceva – nel gruppo lavorava molto come Fritz Perls con gli individui all’interno della “vasca dei pesci”- invitava la persona a fare qualcosa di corporeo: usare il corpo, la voce, il movimento, il contatto con gli altri. Già questo era secondo me qualcosa che sosteneva molto l’anima del gruppo, non era l’individuo isolato all’interno del gruppo. E poi utilizzava tantissimo i feedback…Spesso succedeva che dal feedback di qualcuno prendesse l’avvio un nuovo lavoro individuale; spesso Isha non finiva il giro di tutti i feedback, non lo riteneva molto importante. Ricordo una volta in cui qualcuno aveva espresso un feedback – ma molti altri no – e lui aveva iniziato a fare un lavoro con un’altra persona agganciandosi ad un feedback. C’era un po’ di agitazione perché c’erano alcuni che non avevano parlato e volevano farlo. Lui si è girato e ha detto: “Allora? I bambini dell’asilo vogliono dire anche loro la loro parolina? Vogliono dire che cosa pensano? Sto facendo un lavoro importante, non vedete che questa persona ha tirato fuori qualcosa di importante?”. Lui era molto attento a non infantilizzare le persone e a non sostenere la loro parte narcisistica (quella che dice anche io voglio dire la mia). Non gli interessava questo, ma piuttosto fare dei lavori forti, efficaci e che avessero risonanza su tutto il gruppo.

A: Hai fatto una descrizione molto vivida e molto chiara del modo in cui Isha lavorava. Che ruolo aveva il gruppo per la crescita personale e per la crescita professionale degli individui?

M: Io credo che all’epoca Isha non fosse per niente interessato ad una crescita professionale. Intendo dire, cioè, che tutti i gruppi di allora erano gruppi che formavano psicoterapeuti. È uscita poi successivamente, nel 1989, la Legge che prevedeva che per avere il riconoscimento come psicoterapeuta bisognasse avere la laurea in medicina o in psicologia. Quando mi sono formata io non era così: era sufficiente il diploma di scuola media superiore, poi potevi accedere a una scuola quadriennale di psicoterapia e conseguire il titolo di psicoterapeuta. Quindi per lui era chiaro che, se le persone erano lì, volevano diventare dei professionisti: non c’era nessuna differenza tra la formazione personale e quella professionale. E ancora oggi io condivido questo aspetto: per essere un buon psicoterapeuta o un buon counselor devi avere una formazione personale importante. Lui lavorava con le persone per aumentare sempre di più la loro consapevolezza e per fare questo era necessario rischiare qualcosa di nuovo uscendo dalla loro zona di comfort. Lui diceva: “Non possiamo imparare niente se restiamo nella nostra zona di comfort, è tutta roba che conosciamo già!”

A: Quindi se ho capito bene per te crescita personale e professionale sono praticamente un tutt’uno, cioè trovi che non ci sia una differenza perché le due cose sono strettamente interrelate.

M: Sì, quello che penso ancora oggi è che se una persona ha fatto una buona formazione personale, ed è cresciuta personalmente all’interno di un gruppo di formazione, ha anche una formazione professionale, cioè è in grado di farlo diventare il suo lavoro, di portare la sua esperienza a qualcun altro.

Noi come gestaltisti lavoriamo principalmente attraverso l’esperienza e la prima cosa che diciamo è che noi stessi siamo lo strumento. La teoria viene poi applicata alla pratica, ma l’aspetto fondamentale è l’esperienza personale vissuta insieme agli altri.

In effetti Elaine Kepner afferma, in linea con le esperienze descritte, che “Secondo la Terapia Gestalt, la crescita personale può essere descritta come un fenomeno limite, il risultato del contatto tra l’io e l’ambiente. …”.   (Bud Feder e Ruth Ronall, 1996).

A: Ma Isha, come si appoggiava al gruppo? E come formatrice in che modo oggi tu sostieni la crescita personale e professionale delle persone all’interno di un gruppo? In altre parole come si appoggiava Isha al gruppo e come eventualmente lo fai tu oggi? La parola “Appoggiare” la senti adeguata?

M: Beh! Più che altro parlerei di come Isha sosteneva il gruppo a sostenere le persone, oppure di come lui sosteneva le persone a  mettersi in gioco, nonostante il gruppo!

Noi oggi lavoriamo molto sull’accoglienza, sul creare una situazione sufficientemente sicura affinché le persone si mettano in gioco ed è un qualcosa che condivido perché è collegato a un periodo storico molto diverso da quello di allora. Sosteniamo il gruppo a diventare un contenitore che permetta alle persone di rischiare un po’ di più di quello che fanno di solito, ai tempi di Isha, questo non era affatto fondamentale, anzi! Appoggiarsi al gruppo o aver bisogno di essere accettato, di non essere giudicato dagli altri per esporsi, per lui era un limite all’autosostegno.

Ricordo che una volta qualcuno in un gruppo aveva detto: “Non posso rischiare in questo gruppo perché è un gruppo nuovo che non conosco e non so come muovermi”. Isha gli aveva risposto: “Bene, allora vedi cosa ti succede ad autosostenerti, invece di farti sostenere dal gruppo come fai di solito.” Lui lavorava molto sull’autosostegno al di là del sostegno del gruppo, così a volte succedeva che qualcuno diventava giudicante e lui non lo fermava! Lasciava che le persone diventassero giudicanti in modo che chi era giudicato potesse trovare in sé le forze per reagire. Lui diceva: “Quando andate fuori nel mondo la gente giudica continuamente, cosa fate? Non vi permettete di essere autentici perché se no l’altro vi giudica?”

Lui aveva un’onestà assoluta, era veramente onesto, la persona più onesta con cui abbia mai lavorato. Ricordo il mio primo gruppo con lui… ero molto emozionata e agitata all’idea di lavorare con il grande Isha! Ricordo che in un momento di pausa del mio gruppo di formazione, stavamo parlando di bambini e io sono venuta fuori con una frase del tipo: “Ah, io adoro i bambini!”. Isha si è girato, mi ha guardata e ha detto “Bleah! Non dire str******,  stai dicendo una sciocchezza, non ti credo, non è possibile che ti piacciano TUTTI i bambini!”.

Questo è stato il mio primo impatto con lui! Io mi sono sentita morire, mi sono congelata nel mio narcisismo ferito e nella notte ho fatto un sogno terrificante, un vero incubo! Il mattino dopo lui, molto serenamente, come prima cosa si è girato verso di me e mi ha detto: “Allora Marilisa hai sognato stanotte?”.  “Sì” – gli ho risposto – “ho fatto un sogno tremendo, c’era un  uomo che mi correva dietro e che voleva qualcosa da me e io non sapevo cosa…ma ero sicura di non avere quello che cercava” e in quel momento Isha mi ha detto: “Benissimo quell’uomo sono io! Ieri ti ho fatto una proiezione, devi scusarmi e adesso puoi mandarmi a f******!”. Per me è stata una liberazione e da lì io ho cominciato a lavorare. È stata la prima volta che un terapeuta, un terapeuta della sua stazza, si sia messo in discussione riconoscendo la propria proiezione! Lui rischiava di fare proiezioni, di emettere giudizi, rischiava tutto, ma era anche capace di riconoscerlo. La cosa che mi aveva colpito di lui era che – secondo me – non faceva niente senza sapere cosa esattamente stava facendo!  O per lo meno senza rendersene velocemente conto. Non l’ho mai visto barricarsi dietro al ruolo del formatore, del terapeuta… trasmetteva spontaneità, forza, la capacità di apprendere anche dagli errori e in questo modo ci comunicava “Se lo faccio io lo potete fare voi!”. Era autentico!!

Per lui un buon terapeuta non era quello che non fa mai proiezioni, che è sempre perfetto! Quello è un ideale e lui gli ideali li distruggeva, ci ha fatto lavorare molto sugli ideali.

A: Quello che viene più in luce dal tuo racconto è il coraggio e l’onestà di Isha…

M: Esattamente! Lui teneva molto al coraggio e all’onestà, moltissimo! Non sopportava le persone che si nascondevano o tentavano di camuffarsi, diventava molto frustrante con chi si giustificava o si nascondeva dietro intellettualizzazioni tentando di apparire più che essere. Li ridicolizzava apertamente e poteva diventare molto duro… A volte lo era, soprattutto con gli uomini… non sopportava gli uomini che si nascondevano, diceva che gli uomini italiani erano tutti castrati perché avevano avuto tutti delle mamme italiane… Lui voleva che si riappropriassero della loro mascolinità e del loro potere, voleva che “si riprendessero le loro palle”, diceva. Per questo spesso separava gli uomini e le donne e li faceva lavorare da soli: gli uomini solo con gli uomini, le donne solo con le donne. E quando veniva nel nostro gruppo femminile ci diceva con fare molto complice “Adesso vi racconto che cosa pensano gli uomini delle donne!” e ci raccontava che gli uomini ci immaginano come Madonne, angeliche, sempre accoglienti… E poi aggiungeva: “Gli uomini pensano così delle donne! Fategli vedere che non siete solo questo!”

A: E oggi utilizzi ancora e come, gli apprendimenti acquisiti in quel periodo con lui?

M. Ho sempre apprezzato molto il modo diretto e incisivo di lavorare di Isha anche se attualmente, mi rendo conto che modulo molto di più di un tempo. Le persone oggi sono molto più fragili, la paura è più intensa e il bisogno narcisistico di essere accettati più diffuso. Di conseguenza la frustrazione spesso è mal tollerata…

Una volta rischiavamo veramente… ricordo che in un pomeriggio di formazione uno di noi – ad un certo punto – si è completamente spogliato e ha invitato tutti a mettersi nudi con lui, a confrontarsi e a lavorare senza abiti… una roba forte!  Si facevano queste cose. Proporre una cosa del genere in un gruppo attuale farebbe scappare tutti nel giro di 3 secondi! Come dicevo prima le persone hanno molta più paura e il bisogno di creare un ambiente più protetto è spesso una necessità. Trovare una mediazione tra un gruppo troppo protetto (o che protegge troppo) e uno in grado di rompere la confluenza, quindi di lavorare… non è facile! Perché in realtà si comincia a lavorare davvero quando si rompe la confluenza…prima è più un tastare il terreno. Sono molto attenta a questo aspetto e di solito non sostengo la paura perché sono convinta che questo la aumenti; definire il limite oltre il quale una persona può decidere di rischiare qualcosa è una questione di contatto…

A:  Sì, certo è una questione complicata sulla quale interrogarsi, non è semplice…

Dalle parole dell’intervistata emerge il tema ancora molto attuale dell’atmosfera del gruppo, del come co/crearla e sostenerla; di quale sia/siano la/le “buone modalità”. Bud Feder ci dice molto in merito, affermando: “I terapeuti della Gestalt sicuramente non hanno sempre creduto che la situazione di gruppo abbia bisogno di essere alimentata affinché si sviluppi un’atmosfera abbastanza sicura…” (Bud feder,  1996); egli ci ricorda anche che nel 1967 Fritz Perls affermava con disinvoltura che uno dei vantaggi della terapia di gruppo, rispetto a quella individuale, è che in un gruppo un cliente, per delle ragioni non specificate, è più fiducioso che nella terapia individuale (Ibidem). Forse, come ci suggerisce Richard Kitzler,, parlando di ciò che avviene agli individui “Naturalmente, …nei gruppi uno è immediatamente consapevole delle interruzioni, delle false partenze, delle sciocchezze, delle facili soluzioni che non tengono in nessun conto questioni reali e risoluzioni del super-io quando il gruppo porta fiori all’altare del leader. Questo è equivalente al fenomeno del transfert nella terapia individuale. …… In termini di Gestalt il transfert è confluenza non differenziata, il suo segno caratteristico:  mancanza di consapevolezza e differenziazione” (Ivi). Il gruppo pare dunque avere una particolare potenza nell’evidenziare le nostre modalità cristallizzate e di conseguenza nel sostenere la scoperta di nuove forme e modi di essere, quindi  il nostro apprendimento. La sicurezza e il pericolo così come l’accoglienza e la frustrazione risultano essere delle fallaci antinomie, che Laura Perls sintetizzava con un bel gioco di parole dicendo”Date sostegno quanto necessario e il meno possibile”(Comunicazione personale citata in “Oltre la sedia bollente”). È ancora possibile dire, parafrasando Bud Feder, che in un gruppo il livello e il senso di sicurezza sono elementi di processo sempre in variazione di cui è necessario avere cura. Isha Bloomberg, nel lavoro che Marilisa Cazzaniga ci descrive, pare avere cura del senso di sicurezza degli individui all’interno del contesto gruppale sostenendo il coraggio, evidenziato e consapevolizzato.

A: Durante la tua formazione, ai tempi di Isha, in che modo il gruppo nutriva la crescita individuale e viceversa la crescita individuale nutriva il gruppo? E che impressione hai oggi rispetto a questo tema, lavorando come formatrice.

M: Le differenze rispetto a un tempo riguardano il modo in cui la persona poteva sostenere il gruppo. Allora il modo più diretto del gruppo di sostenere la persona era quello di aiutarla a esporsi attraverso il coraggio di ciascuno, in prima persona, facendo cose insolite che mettevano in crisi il senso della propria identità, affrontando la paura del giudizio e imparando gradualmente ad autosostenersi, come dicevo prima. L’esperienza di essere giudicati e continuare a stare in piedi sulle proprie gambe era considerata un’esperienza importante.

Nei gruppi attuali trasmetto il messaggio che chi si mette in gioco sta facendo una cosa importante, pongo l’accento sul valore del coraggio che implica anche avere paura. Al contrario di ciò che spesso è un introietto (se mi metto in gioco e mostro le mie debolezze mi sentirò, sarò fragile) nel momento in cui mostro le mie fragilità sono coraggioso, tutt’altro che debole! Avere il coraggio di esprimere una propria emozione o scegliere di non farlo per timore esplicitandolo, sostiene il valore e la consapevolezza individuale e di tutto il gruppo. Viceversa, quando il gruppo si confronta in modo aggressivo e qualcuno vive questa situazione come pericolosa o troppo per sé, io sostengo tutto il gruppo a prendersene cura.

Questo è un concetto fondamentale della teoria della Gestalt: organismo e ambiente sono infatti solo due aspetti di una totalità che è il Campo e come tali sono completamente collegati, uno non può esistere senza l’altro.

Questo, nella pratica me lo hanno trasmesso tutti i miei formatori, non solo Isha. Faccio fatica a separare l’individuo dal gruppo… a immaginare come la persona possa sostenere il gruppo e come il gruppo possa sostenere la persona perché sono talmente collegati! Se la persona ha il coraggio di rischiare sta dando al gruppo la forza di poterlo fare, quindi lo sta rinforzando! Se il gruppo si dà il diritto di essere aggressivo e di scaricare delle tensioni, dà forza alla persona perché è un sistema che dice all’individuo “Lo puoi fare anche tu!”

Ciò ci ricorda R. Kitzler quando cita PHG e rinforza, a nostro avviso, il lavoro che Isha portava avanti all’interno del suo contesto storico/culturale: “Con questa essenza della teoria sugli individui che tendono verso quell’equilibrio conosciuto come gruppo, furono integrati questi concetti provenienti dalla terapia della Gestalt; la concentrazione sulla realtà presente e l’attenzione alla sua interezza/struttura parziale, l’elasticità della figura/della formazione dello sfondo nell’organismo/nel campo ambientale, il contatto, l’assimilazione e, infine, l’incremento dello sviluppo del self. La consapevolezza di tutti significativi è critica – significativi nel senso che il tutto spiega le parti” (Bud Feder e Ruth Ronall, 1996, pag. 39).

A: Sembra che si crei un messaggio di reciproco sostegno…

M: Sì, tutto quello che accade alla persona che si mette in gioco nel gruppo, influenza tutti gli altri. Ognuno è influenzato a suo modo a seconda della sua storia, a seconda dei suoi introietti, delle sue regole, ecc.. Io per esempio invito sovente le persone a confrontarsi tra loro, a dirsi quello che hanno vissuto. Era quello che faceva Isha: utilizzava le emozioni, i sentimenti e le immagini che il lavoro dell’altro aveva mosso. In genere le persone tendono a separare “Questo è mio e questo del gruppo”, in realtà quello che accade alla persona fa parte del gruppo, ed è anche qualcosa del gruppo che risuona in ciascuno, non sono entità separate, non si è formato quel gruppo lì per caso. Io credo che nella formazione di un gruppo agiscano attrazioni inconsapevoli che fanno sì che alcuni gruppi siano dominati da certi temi piuttosto che da altri. È qualcosa che succede e osservo spesso.

A: In base ai racconti di voi formatori a volte, quelli come me formati all’interno della Scuola Gestalt di Torino, hanno quasi l’impressione che Isha avesse una specie di “metodo non metodo” per lavorare con i gruppi, cioè un modo di lavorare apparentemente non strutturato, ma in realtà basato su un metodo molto accurato. Tu come la vedi?

M: Sul termine metodo ho delle difficoltà, nel senso che il metodo che lui utilizzava era “Gestalt allo stato proprio puro”, era gestaltico, se vogliamo parlare di metodo possiamo dire che era quello della Gestalt applicata. Diciamo che Isha aveva uno stile molto personale, simile a quello di Perls, molto diretto, incisivo, molto fisico anche. Ricordo che era un omone alto, grosso, con mani grandi e che spesso si alzava dalla sua sedia e camminava, era molto fisico il lavoro con lui! Oppure ci faceva uscire, ci faceva fare attività fuori, era molto creativo, aveva la capacità di andare al cuore del problema, della difficoltà, nel giro di pochissimi minuti… TAC! Questo era proprio il suo stile e credo derivasse dalla sua grande esperienza: era rapido e preciso, come un chirurgo, aveva una grandissima capacità osservativa, non gli sfuggiva il minimo movimento corporeo di nessuno… questa è una cosa che io ho preso moltissimo da lui. La maggior parte delle sue intuizioni arrivavano da là, dal non verbale, dal suono, dal tono della voce, dal modo in cui dicevi le cose…

A: Quindi dall’osservazione e dall’uso della funzione Es, dall’immediata osservazione dell’elemento corporeo…

M: Lui si fidava ciecamente delle proprie fantasie, delle proprie intuizioni ed era proprio quello che trasmetteva anche a noi. A volte c’erano delle situazioni in cui qualcuno, io stessa, avevo delle fantasie e poi dicevo “Boh!… Ma no, non c’entra niente questa roba!”. Lui ci invitava proprio a dire tutto quello che ci accadeva e poi a individuare il collegamento e il collegamento c’era sempre! E questa modalità attiva anche la Funzione Io, in grado di cogliere quello che sta facendo la funzione Es. A lui piaceva moltissimo lavorare in questo modo, lavorava moltissimo anche sui sogni, era uno dei lavori che gli piaceva di più fare. Penso che il suo più che un metodo fosse il suo particolarissimo stile..

A: Ah, quindi per te Isha aveva uno stile proprio,  più che un metodo vero e proprio….

M: Sì, lui aveva il suo stile e si confrontava con tutti, anche con gli altri formatori, con Mariano,  con Mimma, con Hilda: quando dicevano qualcosa che lui non comprendeva o che non c’entrava niente con la situazione, si rivolgeva direttamente loro e parlavano anche 10 minuti, lavorava con loro, lui lavorava con tutti! E questa è un’altra cosa che a me è piaciuta tantissimo del suo modo di lavorare… non c’era niente, nessuno che esulasse dal lavoro.

Lo stile di Isha, il suo modo altamente personalizzato di lavorare si riallaccia a un pensiero e ad una tradizione fortemente gestaltici che rimandano alla creazione di un apprendimento libero da identificazioni coatte e preconcetti, fondato soprattutto sull’esperienza.  Citiamo a tal proposito le parole di Richard Kitzler: “… Ma ho sempre avuto l’impressione che i modelli conducessero a codificazioni, e le codificazioni portassero a facili tecniche da manuali di cucina che in qualche modo mancavano l’obiettivo – sia del gruppo che del leader. Il materiale di un clinico deve essere parte di se stesso, e non una serie di formule applicate a richiesta.” (Bud Feder e Ruth Ronall, 1996,  pag. 41). Pare che Isha incarnasse nel suo modo di lavorare l’atteggiamento di apertura fenomenologico ed esperienziale della Gestalt, poggiandosi su una grossa capacità osservativa e intuitiva e quindi valorizzando al massimo la possibilità di stare con l’altro, consapevolizzando ciò che avveniva, ovvero dando sfondo, valore e consapevolezza alla funzione Es (elemento di sensazione ed emozione più immediato) e alla funzione Io (fattori di scelta identificativa).

A: Da quanto dici Isha aveva uno stile molto confrontativo…

M: Sì, ma anche molto intimo. Isha portava spesso la sua vita personale nel gruppo, le sue problematiche con Linda per esempio. Linda era la moglie e qualche volta partecipava al gruppo,  anche lei era una terapeuta straordinaria! Lavoravano anche insieme e poi c’erano i suoi figli che arrivavano e portavano scompiglio nel gruppo. Anche loro facevano parte del lavoro, Isha includeva tutto, qualsiasi cosa era un motivo di lavoro! Nell’ultimo gruppo di counseling che ho tenuto, una persona ha chiesto timidamente se poteva portare il suo bebè nel gruppo, perché temeva potesse disturbare… Da Isha ho imparato a essere inclusiva e a considerare tutto quello che entra all’interno del gruppo come opportunità di lavoro. Isha diceva spesso “La grande terapeuta è la vita!” così faceva in modo che anche il gruppo fosse il più vicino possibile alla vita reale.

A: Prima mi ha colpito quando hai parlato del senso di sicurezza, al modo in cui si costruisce – o è necessario costruire – il senso di sicurezza all’interno di un gruppo di formazione, attraverso un clima, diciamo, adeguato e sostenente. Sono curioso di sapere un po’ di più, anche se lo hai già accennato…

M: Con Isha la sicurezza non esisteva, l’unica sicurezza era data dall’essere autentici, se te lo permettevi lui ti sosteneva, ma nei suoi gruppi non mi sono mai sentita al sicuro…, nemmeno nel mio stesso gruppo di formazione… era il gruppo meno rassicurante della terra…

A: Per niente rassicurante?!?

M: No, per niente! Tutti però abbiamo lavorato e ci siamo messi in gioco! A Vignalino, da Isha, come residente avevi il diritto di entrare in qualunque tipo di gruppo, potevi fare anche tre gruppi in una giornata e quindi entravi anche in gruppi completamente sconosciuti dove non avevi nessuna sicurezza! Anzi come ultimo arrivato potevi anche diventare il capro espiatorio o essere attaccato perché non facevi parte del branco…!

Questo era il nostro normale modo di lavorare! Credo che la cosa che Isha mi ha trasmesso di più sia stato veramente il coraggio! L’importanza del coraggio… lui diceva sempre: il coraggio non è l’assenza di paura! Quella è incoscienza! Il coraggio anzi è inseparabile dalla paura e consiste nell’andare avanti nonostante la paura.

Ed è qualcosa che ancora oggi trasmetto perché il problema non è la paura in sé: la paura è un’emozione, è un segnale, un segnale importante! Ma quando diventa un blocco e mi impedisce di fare esperienza, allora sì, diventa un problema!

Tanto per aver chiaro qual era il clima di totale assenza di sicurezza, ti farò un esempio: noi arrivavamo là per fare le residenti, pagavamo 800 mila lire al mese e allora era una cifra importante. Quando Isha ci accoglieva diceva: “Bene! Questa è la struttura! E allargava le braccia per darci il senso della grandezza: c’era Vignale più in alto, Vignalino più in basso e diverse strutture in tufo che un tempo erano il ricovero delle pecore. “Trovatevi il vostro posto!” ci diceva. L’unica “struttura strutturata” però, dove c’erano stanze, la cucina e i bagni, era sempre tutta piena perché ci vivevano i terapeuti e i formatori. Io e una mia compagna di viaggio dell’epoca, ci siamo rimesse a posto uno degli ex ricoveri per pecore e l’abbiamo reso molto accogliente! Era tutto a nostro carico… trovare il tuo posto era a tuo carico!

A: Cioè, ristrutturavate  proprio l’ambiente, in maniera fisica….

M: Sì! C’era solo la struttura dei muri esterni tutto il resto lo dovevi creare tu, spesso anche materialmente aggiungendo porte che non c’erano o aprendo finestre inesistenti…

A: Questo è particolare!

M: Anche nei compiti che lui dava alle persone che vivevano lì: lui era completamente destrutturante! Se riuscivi a trovare una struttura e a sistemarti in quel mondo di possibilità prive di struttura, l’avevi trovata anche al tuo interno, non c’era nessuno che ti creava un ambiente sicuro, anzi Isha faceva di tutto per toglierti appoggi… ah, ah ah!!!

A: Quello che descrivi, il modo di lavorare, questo complesso sistema interrelato che stai descrivendo, era il vostro modo di lavorare sulle dinamiche di gruppo – un altro degli interessi cheabbiamo come rivista – il lavoro con i gruppi! Mi sembra che voi lavoraste molto sulle vostre dinamiche di gruppo… Quanto questa esperienza ancora molto viva nel tuo racconto, ha influenzato la tua identità di formatrice, il tuo modo di lavorare oggi? Sembrerebbe da quello che dici… molto!

Però in che modo ti ha formato come formatrice, come una esperta del lavoro dei gruppi?!

M: L’aspetto per me più “formante” è stato proprio l’assenza di struttura perché mi ha permesso di trovarla in me, è quello che oggi mi permette di sentire in una qualunque situazione, che ho un posto, che posso trovarmelo e non è poco. Sentire che non ho più bisogno come un tempo di paletti, appigli, certezze a cui aggrapparmi, è fantastico!

Dopo la mia formazione per 10 anni, ho fatto un altro lavoro, ho fatto l’educatrice, lavoravo per una comunità di adolescenti a rischio, ma senza mai lasciar cadere questo sogno di diventare formatrice!

Il modo in cui sono diventata formatrice è stato completamente collegato, in armonia e assonanza con la totale assenza di struttura…

Noi come scuola oggi stiamo facendo un gran lavoro per cercare invece di dare una struttura, comunque più di quella che allora abbiamo ricevuto: un sostegno, un’impalcatura per chi esce dalla scuola e che intende farlo come professione. Una volta, invece, non c’era nessuna struttura! Da un lato faceva molta paura, dall’altro è stato quello che mi ha permesso di strutturarmi e trovare la forza di propormi dopo 10 anni come formatrice, entrando in un gruppo senza essere mai stata tutor prima e gestendolo come ne ero capace. È stata un’esperienza durissima….

A: Mi sembra che tu dica che l’aspetto non strutturato del lavoro e dell’esperienza è proprio quello che ti ha maggiormente strutturata nella tua identità di formatrice, è quello che ti sostiene e ti consente di lavorare di più anche oggi, in un’epoca e in un contesto che tu stessa descrivi differente…

M: Sì, un’altra delle mie formatrici era Hilda[2], anche lei lavorava molto in questo modo. Sosteneva molto la capacità di stare nell’incertezza! Ha scritto anche un articolo in merito al non avere bisogno di certezze, di sicurezze, di un terreno forte, perché il terreno sei tu!

A: Hai ancora qualcosa da dire sulle somiglianze e sulle differenze tra il modo in cui lavorava Isha e il modo in cui lavori tu oggi come formatrice? Forse ci siamo già detti tante cose…. c’è qualcosa che vorresti ancora aggiungere?

M: Forse un aspetto che non ho finora sottolineato è che Isha aveva un grande senso dell’umorismo, lavorava moltissimo con l’umorismo. Da buon ebreo utilizzava racconti umoristici della tradizione yiddish e aveva un talento speciale a cogliere gli aspetti buffi della vita e delle persone…Ho sempre apprezzato l’umorismo e chi lo sa praticare, è assonante alla mia personalità e non ci rinuncerei per nulla al mondo….

 

Citiamo ancora R. Kitzler, che valorizza molto l’umorismo dicendo: “Un’altra parola può essere detta sullo stile in riferimento al gruppo totalmente privo di senso dell’umorismo: non è solo noioso, ma indica anche la mano pesante dell’oppressione ipocrita. Il senso dell’umorismo combina gli elementi di amore, arguzia e pathos – una visione tollerante della condizione umana. Il leader può incoraggiare questa espressione umana dimostrando la propria capacità a tollerare l’infinita stupidità – e genialità – umana con cui le persone si reprimono” (Bud Feder e Ruth Ronall, 1996,  pag. 49) E ancora: “Il senso del comico, l’ironia, l’arguzia, confronti ed esagerazioni buffi – sono tuttistrumenti dell’umorismo per portare il gruppo alla sua fondamentale umanità e umiltà.” [Ibidem]

A: Quindi l’umorismo ti calza bene addosso…

M: Quando ho iniziato a fare la formatrice, perlomeno nei primi anni, non me lo permettevo, mi sembrava non si addicesse a un terapeuta… Poi ha iniziato a tornarmi alla mente Isha quando faceva battute creando buffi collegamenti sulle cose che dicevamo, un altro modo per destrutturare la nostra identificazione con certi modi di essere…

A: Questa è una somiglianza, un qualcosa che ritorna. C’è invece qualche differenza che puoi   ancora sottolineare?

M: Beh! Una differenza è che io, a differenza sua, do molta importanza all’aspetto teorico nei gruppi di formazione, faccio parecchia teoria, lui di teoria ne faceva davvero pochissima, con lui si lavorava! La formazione teorica ce la facevamo noi andando a leggere i libri, ma era tutto fondamentalmente lavoro…

A: Lavoro esperienziale quindi…

M: Sì, non ho neanche un ricordo in cui lui abbia per esempio esplicitato un aspetto teorico, faceva degli accenni, usava dire “Questo fa parte del ciclo di contatto… sei in questo punto, ecc.”, però non spiegava più di tanto…

A: Anche questo è interessantissimo per noi che oggi cerchiamo di dare maggiore chiarezza alla teoria e ci troviamo a scrivere, seppure, come dicevamo prima, in un momento differente.

M: Isha non scriveva quasi niente, pochissimo…

A: Da un lato è estremamente affascinante, forse un peccato per noi, per chi come me che non l’ha conosciuto e non può leggere i suoi scritti… La conoscenza ci arriva solo attraverso l’esperienza e il racconto di persone come te…

 Charles Bowman ci ricorda come la storia della terapia della Gestalt sia fondata nella sua fase iniziale dall’implicita decisione di tenersi fuori dall’ambiente accademico e istituzionale. Ciò pare per un tempo importante, aver comportato il non dare spazio alla trasmissione scritta ritenuta a rischio di cristallizzare l’esperienza (Sarah M. Toman, Ansel L. Woldt; 2005).

A: Siamo in chiusura, c’è qualcosa che non ti ho chiesto e che vuoi aggiungere?

M:  Un aspetto che a me era rimasto molto impresso e che è completamente scomparso attualmente – non solo per quanto riguarda il mio modo di essere formatrice, ma anche dei miei colleghi – è che lui differenziava molto il maschile dal femminile e quindi lavorava in modo molto diverso con gli uomini e con le donne. Con le donne era molto più accogliente, molto più sostenente, perché diceva che le donne erano già abbastanza massacrate dagli uomini nella quotidianità, da questo mondo maschilista, con gli uomini, a volte, era molto duro. Lui sosteneva, non so se l’ho detto, che gli uomini italiani, i latini – li chiamava “male pig”… “maschi maiali”[3] – perché oltre essere “castrati” erano anche molto svalutanti e disprezzanti nei confronti delle donne. Lui lavorava moltissimo su questo aspetto per cui spesso, quando si rendeva conto che c’era del disprezzo da parte dei maschi, lui divideva il gruppo in due e faceva lavorare le donne e i maschi separatamente e nei gruppi maschili andava giù pesante! Ricordo che alla fine di alcuni gruppi c’erano uomini furiosi con lui che arrivavano a odiarlo, altri erano distrutti, proprio a pezzettini….Ma con quelli che superavano la prova e accettavano di mettersi veramente in discussione lui diventava molto, molto sostenente.

A: Quindi quello che tu descrivi sembra essere un modo molto forte e molto particolare di sostenere l’identità di genere e forse anche la sessualità.

M: Questa è una cosa che mi ha molto colpito del suo modo di lavorare  perché gliel’ho visto fare in tutti i gruppi. Aveva un occhio particolare riguardo alle differenze di genere e lavorava proprio in un modo diverso a seconda della…

A: …persona che aveva davanti e anche del genere. Va bene, io ti ringrazio tantissimo per il tuo tempo e per le cose che ci hai raccontato che trovo molto molto interessanti! Sicuramente sono buone, formative e di forte crescita per la rivista e per chi ci legge!

M: Sì, mi piacerebbe diventassero argomenti, spunti su cui riflettere rispetto al nostro modo attuale di lavorare come formatori.

A: L’idea comune è proprio questa… Grazie ancora Marilisa!

M: Grazie a te, Andrea!

Dalle parole e dai racconti della formatrice Marilisa Cazzaniga emerge la descrizione di un personaggio e di una Terapia della Gestalt esplicita, diretta, coraggiosa e penetrante, incarnata da Isha Bloomberg. L’insegnamento, la pratica e il lavoro di gruppo, fusi in un contesto che li comprendeva tutti insieme, erano radicati in maniera forte nell’elemento esperienziale e fenomenologico. L’evidenziare e il consapevolizzare le nostre paure, fonte prima delle nostre interruzioni di contatto con l’ambiente, erano al centro del lavoro, dell’esperienza e dell’apprendimento. Il coraggio, un valore portato avanti e “strumento primo” di rinnovata ricerca di benessere. Il quadro che emerge è quello di una Terapia della Gestalt che si tramanda nel tempo al servizio della consapevolezza, del superamento delle proprie paure e della ricerca della realizzazione esistenziale.

[1] Un gruppo di case in pietra situato sulle morbide colline del Chianti nella provincia di Siena. Qui Isha viveva con la famiglia e ospitava gruppi di formazione provenienti da tutta l’Europa.

[2] Hilda Courtney, psicoterapeuta, è stata una importante docente della Scuola Gestalt di Torino – e co altri – fondatrice del Gestalt Trust of Scotland, già trainer nel Gestalt Training Service di I. Bloomberg. Ha insegnato per oltre 30 anni Terapia Gestalt contribuendo fortemente alla sua crescita in Gran Bretagna, in Italia in altri vari paesi europei.

[3] N.d.T. – Un’espressione di tale forza, va inserita nel contesto degli anni’80 in cui in Italia il femminismo e il bisogno di affermazione delle donne, occupavano in modo primario il contesto politico e sociale. Ischia era molto attento a sostenere la forza assertiva delle donne, così come a contrastare la tendenza dominante e maschilista degli uomini.

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