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Calarsi nel crepaccio

Calarsi nel crepaccio

Presentazione a cura di Marilisa Cazzaniga
Presidente dell’Associazione e Direttrice della Scuola Gestalt di Torino – Counseling.

La nostra Scuola di Counseling ha inserito nel terzo anno della formazione un weekend dedicato alla sofferenza psicotica, in modo che gli allievi, sperimentando in prima persona quanto essa non solo non sia così lontana, ma possa intimamente riguardarli, imparino a riconoscere il sottile confine che separa la sofferenza nevrotica da quella psicotica. L’esperienza “presentificante” qui e ora nel vissuto soggettivo degli allievi, si snoda in tre tappe: il sommerso, i racconti e l’incontro. Profondità sconosciute e terrificanti, dove la paura diventa angoscia e i confini tra realtà e sogno si sfumano e si perdono, prendono forma all’interno di un contenitore certo quale è il gruppo. Ascoltando con tutto il corpo i racconti di chi non sente più di appartenere a una realtà condivisa, i neo-counselor possono così avvicinarsi a una realtà “altra”, alienata e alienante, per imparare a riconoscerla, risuonando con chi spesso non lo può più fare da sé. Senza questa capacità infatti potrebbero non essere in grado di reindirizzare chi ne necessiti, a un professionista con le competenze necessarie – medico, psichiatra o psicoterapeuta – e restituire umanità a chi spesso sente di averla completamente persa.

Da dove nascono questi straordinari frammenti poetici?

Mesi fa mi era stato chiesto dalla redazione di Figure Emergenti di scrivere sul corso che da anni  conduco all’interno dei percorsi formativi sia in psicoterapia che in counseling.  Al primo successivo seminario con gli allievi counselors, mi è venuto spontaneo chiedere la loro collaborazione, e quella della tutor Sara alla creazione di questo articolo, nei modi che preferivano. La scrittura autobiografica è stato il modo che loro hanno prescelto, e questi scritti ne sono il ricco e per alcuni versi misterioso enigmatico frutto.

Saranno il filo rosso che mi aiuterà a descrivere il lavoro che cerco di svolgere all’interno della scuola.

Prima però lascerei  brevemente la parola a Sara, che ci dirà come nasce e si sviluppa la sua proposta di scrittura autobiografica, di cui sapevo poco e che si è rivelata così fertile e sostenente.

sì carla… ciao a te e ciao a tutte le persone che stanno leggendo… sono sara e mi inserisco nel testo per presentare il lavoro di scrittura che apre questo articolo e che hai appena definito con eleganza “frammenti poetici”.

 … poesie

 feedback,

 parole di pancia,

 scrittura di getto.

un approccio alla scrittura vissuta come autentico e immediato accesso alla funzione es. 

nelle ore che ho condotto come tutor nel gruppo dell’attuale terzo anno di counseling, ho dedicato molto spazio all’esplorazione e sperimentazione della scrittura orientando le mie proposte di lavoro intorno a tre fuochi:

  • lo scrivere di getto come esperienza creativa che sostiene l’emergere di una figura
  • la scrittura autobiografica come strumento per la cura di sé
  • la condivisione, lettura e ascolto: cura del gruppo

ogni istante della nostra vita racchiude un numero infinito di eventi, attraverso la scrittura di getto possiamo accogliere la molteplicità dei nostri vissuti in un’esperienza che avviene nel momento presente e offre luce a qualcosa che emerge proprio ora e proprio così!

la scrittura autobiografica, invece, consente di utilizzare e rielaborare la nostra storia, le nostre esperienze passate e presenti, attraverso un processo di identificazione e alienazione; il pensiero autobiografico offre un nuovo senso alla nostra vita.

infine, la lettura ad alta voce di ciò che abbiamo scritto offre la possibilità di soddisfare il bisogno di condivisione, di appartenenza e di relazione.

inoltre, l’esperienza condivisa della narrazione agevola l’incontro fra le differenze.

dunque.

ho proposto al gruppo in formazione lavori di scrittura come strumento per narrare e s-coprire la propria storia, ma anche come occasione per contattare l’esperienza presente e, attraverso questa, raggiungere le altre persone e lasciarsi influenzare. 

in altre parole, la scrittura può sostenere il processo di contatto e aprire la porta a momenti di approfondimento.

torniamo a noi…

e sì!… in accordo con te carla, e con il gruppo, abbiamo utilizzato questa risorsa per esprimere i feedback durante alcuni momenti del seminario da te condotto.

c’è da dire che le tue proposte di lavoro, nel corso del week-end esperienziale, si sono articolate attraverso e dentro narrazioni dal mondo del Dolore: ci hai portato a incontrare e conoscere persone che hanno scelto di raccontare e condividere la propria storia di sofferenza proprio con la scrittura autobiografica!

e così… il processo di co-costruzione delle esperienze non solo ha avuto un luogo ma è andato avanti… 

infatti, nel successivo week-end di formazione abbiamo dedicato le ore tutor alla

masticazione dell’esperienza vissuta con te utilizzando ancora lo strumento della

scrittura, ma questa volta con un lavoro di gruppo: i frammenti poetici che aprono e accompagnano questo articolo, sono il frutto dell’elaborazione e condivisione degli scritti personali di getto, i feedback, che sono diventati un testo collettivo ri-definito un mese dopo l’esperienza diretta vissuta con te carla.

ci tengo a dire che il testo collettivo qua presentato mantiene l’originalità dei frammenti personali pur prendendo forma in un insieme: il tutto è più della somma delle parti.

a te carla abbiamo lasciato l’arte di mettere insieme ‘il tutto’ in una cornice di senso profondo e complesso.

rileggendo ora il ‘risultato’ condivido con chi legge la bellezza di questo processo e la commozione che mi prende ripensando a quei momenti preziosi e condivisi!

grazie al gruppo e grazie a carla!

Grazie a te Sara! I quattro elaborati poetici che il tuo intervento ha stimolato e condotto a produrre, come dicevo, saranno il FILO ROSSO che mi aiuterà a descrivere il seminario che conduco nelle due scuole, di Counseling e di Psicoterapia: essi infatti ben rappresentato tre delle tappe fondamentali nello svolgimento del corso. Ma prima di passare al vivo, è necessaria ancora qualche premessa, che contribuisca a creare la cornice, delinearne lo sfondo.

Mi presento. Da anni collaboro con la Scuola Gestalt di Torino, sono una psichiatra che si è occupata nel servizio pubblico soprattutto di persone gravemente sofferenti, portatrici di esperienze psicotiche o comunque profondamente lacerate nel senso di sé, della propria vita: persone che potremmo anche vedere come disperati abitatori degli abissi dell’anima umana. Spesso esclusi ormai dal contatto con la realtà condivisa, autoesclusi ed esclusi dagli altri, che non riescono più a capirli, a comunicare con loro.

Con che approccio ho cercato di prendermi cura di queste persone? La mia formazione di base è di tipo fenomenologico-esistenziale, ed oltre ad essere psichiatra sono psicoterapeuta e anche counselor: infatti ho frequentato i tre anni del corso da counselor della Scuola, e la Gestalt, secondo varie declinazioni, è così entrata a far parte del mio bagaglio professionale.

Proprio alla fine del mio corso di counseling, nei primi anni 2000, la scuola mi ha chiesto per la prima volta di tenere un seminario, un fine settimana, in cui presentare queste persone gravemente sofferenti agli studenti delle due scuole. È stato l’inizio di una lunga collaborazione.

Quanti interrogativi si sono subito affacciati sia a me che alla direzione didattica…

Come,  cosa e chi presentare?

Rispolverare insieme il DSM IV, oggi DSM V[1]? Fare una carrellata delle diverse visioni psicopatologiche? Ripercorrere la storia della follia e dei suoi trattamenti?

Forse anche, ma condurre un weekend esclusivamente teorico in una scuola che ho sempre apprezzato per l’alto livello di esperienzialità mi sembrava estraneo sia alla scuola e che alla mia natura, portata più a cercare di concretizzare le cose che penso che a teorizzare quello che faccio. In fin dei conti sono cresciuta in tempi dominati da parole d’ordine oggi forse desuete, come ‘prassi teoria prassi’.

Che fare?

Negli anni di lavoro nelle comunità e negli ambulatori ho collaborato con molti giovani psicologi, psichiatri, educatori animati da intensa curiosità per i pazienti ‘gravi’, e da molta voglia di aiutarli. Ma con grande stupore abbiamo spesso insieme scoperto che una delle difficoltà più grosse che incontravano lavorando sul campo era stata proprio riuscire a conoscere e ad ascoltare in modo non scontato le persone portatrici delle esperienze più radicali di sofferenza e di alienazione della vita umana, che potremmo raggruppare genericamente nel termine ‘follia’.

Ovvero la più grande difficoltà è consistita nel ‘vedere’, nell’’ascoltare’ l’Altro, nel coglierlo nel suo essere nel mondo, nella sua esistenza seppure alienata, prima ancora di affrontare cosa fare e come farlo, metodi, pratiche, teorie.

Questo lo sfondo da cui sono partita, ed ho ipotizzato che anche gli allievi della scuola, giovani psicologi, medici e counselors avrebbero incontrato analoghe difficoltà.

Come procedere? Si sono affacciate le prime domande.

Come ‘presentificare’ loro questo tipo di sofferenza al di là del discorrere diagnostico e sintomatologico?

Come far sì che le persone con modalità esistenziale psicotica riuscissero a ‘parlare’ loro?

Come far sì che le loro parole e i loro comportamenti da sintomi diventassero significanti, acquistassero spessore, evocassero sentimenti, ricordi, sensazioni?

Come aiutare gli studenti a conoscerle, a ri-conoscerle, ad entrare in relazione con loro?

E quindi a poter trovare un linguaggio comune per collaborare con altri operatori in forme di trattamento che per definizione devono essere complesse, per tentare integrazioni là dove la dis-integrazione sì è insinuata o ha spaccato?

Ed ecco subito di contro emergere un altro nodo: ipotizzavo di conoscere qualcosa dalle mie esperienze, dal mio sfondo, ma in realtà del campo in cui avrei operato, degli allievi che avrei incontrato, cosa sapevo? Nulla…

Con molto sconcerto mi sono resa conto che, se dal mio sfondo professionale mi parlavano i colleghi con cui avevo lavorato, questo non mi diceva ancora nulla su quelli che avrei conosciuto nel seminario. Mi era sconosciuto il campo di cui avrei fatto parte ed in cui mi sarei trovata ad operare!

Ovvero non  mi sarei trovata affatto ad operare in un campo ‘vuoto’, come spesso ci accade di pensare come formatori, ma questo campo era già un pullulare di domande, esperienze chiuse in chissà quale dimenticato cassetto interiore (perché della follia è meglio dimenticarsi, è più salutare…).

Cosa e come potevo seminare su un campo già seminato?

Allora ebbi chiaro che ancora prima di cercare di presentificare la sofferenza tragicamente implicita nelle esperienze di ‘follia’, dovevo conoscere questo campo, aiutare gli allievi a far emergere le LORO esperienze relativamente alla ‘follia’.

Che cosa avevano già sperimentato? Che idee se ne erano fatti? Attraverso che canali?  L’università? Esperienze familiari o amicali? Sociali? Lavorative? Quanto sulle loro idee e i loro vissuti, spesso impliciti, avevano pesato i mass-media? Film, canzoni, modi di dire …

Tutto ciò affiora in genere difficilmente alla consapevolezza, sono esperienze, vissuti, parole da cui spontaneamente fuggiamo. Il dimenticato cassetto interiore della ‘follia’ è quasi sempre ben chiuso: come cercare con cautela di aprirlo?

LA PRIMA TAPPA: IL SOMMERSO

Allora il primo obiettivo del corso è diventato: fare emergere quanto gli allievi già sanno, hanno condiviso, sperimentato, visto, della e sulla follia…. un sapere implicito, scontato, che non sappiamo neanche da dove arriva… che forse nel nostro normale quotidiano non sappiamo neanche che esista, e cercare di portarlo alla luce, per dare un nome, per cercare il filo di un racconto, per divenire consapevoli della complessità dei vissuti che si agitano dentro di noi, degli incontri che abbiamo ‘dovuto’ dimenticare per salvarci, dimenticarli a nostra volta nei fondali marini della nostra anima…

Ci sono certo dei gruppi, delle situazioni, in cui i vissuti più profondi, le storie personali più laceranti emergono da sé, già nel giro di presentazione di ciascuno. Questo è quanto è successo col gruppo che ha collaborato all’articolo.

Ma con altri gruppi è necessario trovare dei modi per ‘smuovere le acque’.

Vi descrivo brevemente un modo che ho spesso proposto: chiedo al gruppo di disporsi in una posizione comoda e solida, ad occhi chiusi, in un clima di raccoglimento e ascolto del proprio corpo e respiro, e quindi leggo una serie di frasi scontate, notizie e commenti ovvi, banali, duri, crudi, a volte crudeli, sulla follia: i titoli dei giornali, le chiacchiere, le frasi fatte, le superficiali domande tra vicini di casa o nel negozio o davanti a scuola….

Ovviamente l’uso di frasi banali, scontate in un clima di raccoglimento attento provoca spesso delle incrinature in quel guscio che ciascuno di noi aveva costruito, si affacciano ricordi lontani, visi appannati, sentimenti perduti, paure, misteri, un flash che ci rende attoniti…

Poi finito il raccoglimento e l’ascolto, alcuni vissuti, qualche immagine possono diventare in qualcuno più chiari, prendere forma, addirittura trovare ‘le parole per dirlo’… fino ai racconti torrenziali che non si sapeva neanche di conservare dentro di sé, con lacrime e sgomento. Il gruppo ascolta, raccoglie, condivide, si incrociano gli sguardi, una postura si rilassa, parte un abbraccio ad abbattere la vergogna, un altro racconto si aggancia, si aprono i silenzi, le chiusure…

Il primo ‘frammento poetico’ parla proprio di quest’esperienza, rileggiamolo ora:

Vaffanculo è tipo la prima parola che mi viene.

Sono arrabbiata direi. Ma dai? Che novità novitona! E poi

mi viene da ridere adesso che ho scritto questo. La prima cosa che ho pensato alla fine della lettera è che non voglio che gli altri, i miei

compagni di corso, conoscano questa storia.

È SOLO MIA! Non vedi che fa troppo schifo? Voglio proteggere tutti. Non voglio che nessuno sappia…”

 “Vaffanculo…”: esplode subito la rabbia, rabbia di essersi sentiti provocati, di essersi esposti, di avere violato il Segreto. “Non voglio che gli altri, i miei compagni di corso, conoscano questa storia” Ecco, ci eravamo tanto impegnati a tenere nascosta forse anche ai nostri stessi occhi e a quelli dei nostri compagni la nostra storia, quel particolare pezzo della nostra storia, ed ora siamo pentiti: “È SOLO MIA!

Perché tanta rabbia? “Non vedi che fa toppo schifo”. Provo schifo di fronte a un pezzo della mia storia, uno ‘schifo’ angosciato che ferisce, lacera così tanto già me che “voglio proteggere tutti”.

Questa storia è una storia che fa schifo, che è pericolosa, che è unica, tanto da non poter neanche essere condivisa coi compagni di un corso di tre anni di esplorazione dei meandri più criptici della mente umana. Viene ribadito con forza:  “Non voglio che nessuno sappia”.

Continuiamo a leggere.

“Io posso tenere tutto dentro nell’addome che per l’occasione mi sembra diviso in due, come se al posto degli organi dell’addome io

avessi due polmoni davanti. E questo è ciò che mi fa ridere, mi dà

allegria.”

La voglia di rimangiarsi tutto, di nascondere di nuovo tutto. “Io posso tenere tutto dentro nell’addome…”. E poi “…che per l’occasione mi sembra diviso in due, come se al posto degli organi dell’addome avessi due polmoni davanti”: vorremmo in questa occasione essere onnipotenti, e poter cambiare la nostra anatomia, non avere più viscere, ma due polmoni addominali, nascosti in fondo all’addome, davanti (ma quando mai i polmoni sono stati dietro?…). In cui poter riprenderci tutto, ri-respirare tutto dentro. Un addome diviso in due polmoni. Ecco la soluzione, due polmoni addominali in cui poter risucchiare quanto abbiamo detto: soluzione paradossale, assurda, tanto da scatenare, per fortuna il riso, far scattare l’ironia, l’allegria. “E questo è ciò che mi fa ridere, mi dà allegria”. Questo è il nostro essere sani. Altri potrebbero affermare con assoluta ed inespugnabile certezza di avere davvero due polmoni davanti con cui respirano tutto lo schifo del mondo. Tale invece sarebbe l’esperienza psicotica.

Allora ragazzi facciamo che io tengo tutto qua nei polmoni

davanti. Prendo tutto io e voi non sapete niente.”

Si tenta il patto coi compagni “Allora ragazzi facciamo che…”, la collusione o ad altri livelli, la confluenza. È solo affare mio, come se nulla fosse mai successo, spazziamo la polvere sotto il tappeto, “io tengo tutto qua nei polmoni davanti”.

Poi cresce fortemente l’angoscia, è necessario essere più drastici, dettare in qualche modo la Legge: “Prendo tutto io e voi non sapete niente”.

Cosa è successo?

Si è, dolorosamente e rabbiosamente, incrinata la difesa, la BARRIERA che tradizionalmente mettiamo tra noi e la follia, quella con cui tutti nella vita siamo venuti a contatto, attraverso un vicino di casa, un parente lontano dalla storia oscura, un amico che a un certo punto cambiò totalmente, un collega con cui era impossibile parlare… esperienze, riflessioni, vissuti, che nella vita quotidiana divengono sotterranei, fanno paura, da dimenticare…. ma che come ogni parte di noi, tanto più se inconsapevole, agisce e ci condiziona, nella vita personale e professionale.

Ora queste esperienze, riflessioni, vissuti si sono affacciati a noi stessi, sono, almeno in parte, emersi alla nostra consapevolezza.

Vorremmo chiudere subito questa incrinatura, far finta di niente, far finta di essere sani, come dice Gaber…

Invece ciascuno di noi è quello di prima e non lo è più, la storia di ciascuno diventa diversa, affonda di più nel tempo e nella profondità, e si scopre con cautela e sollievo e vergogna e rabbia di non essere i soli ad essere stati traumatizzati dall’incontro con l’angoscia psicotica, con quel particolare tipo di dolore radicale ed estremo che è il dolore psicotico, nelle più disparate situazioni di vita, da quelle più personali, intime, a quelle professionali a quelle sociali.

Se il gruppo è d’accordo, raccolgo i vissuti, le emozioni, i sentimenti che emergono e li scrivo su un grande foglio: ora davvero non appartengono solo più a chi li ha provati, ora tutti hanno sotto gli occhi quanto era nascosto, quanto era in-criptato dentro ciascuno di loro è lì fuori, sotto i propri occhi e gli occhi di tutti. Cito il primo scritto: la “storia ‘schifosa’ che era solo mia!” che volevamo riprenderci in esclusiva, per cui desideravamo accordarci, confluire con il gruppo per nasconderla di nuovo dentro l’addome, anzi respirarla dentro l’addome, ora è parte di una tappa della storia del gruppo: quello schifo appartiene insieme e a tanti altri sentimenti a un elenco di vissuti fino a poco tempo prima ignoti od ignorati, riportati tutti insieme su un foglio, ‘anonimi’ ma visti e condivisi nello stupore tra tutti. I vissuti del gruppo nell’in-contro con la follia.

Questa fondamentalmente è la prima tappa del lavoro. Faticosa, ma spesso rivelatrice, sorprendente per tutti.

Oltre al gruppo ora sono tra noi nella stanza parenti, amici, vicini di casa, colleghi, pazienti, tutti abitatori di personali abissi che abbiamo riportato alla luce. Siamo andati ben al di là dello ‘scontato’, dei ‘pre-giudizi’ di husserliana memoria, delle categorie diagnostiche, e siamo entrati in contatto con la carne viva nostra e delle persone che avevamo incontrato.

LA SECONDA TAPPA: RENÉE, VALENTINA, KAY

Ed ora come continuare?

Ora che siamo divenuti consapevoli, con un certo disagio e dolore, di essere già entrati in contatto, in modi molto diversi, con delle esperienze di dolore estremo dell’esistenza umana che avevamo allontanato e sterilizzato, ora che siamo andati ben oltre a tutto quanto avevamo imparato su diagnosi, sintomi: ora che forse i cosiddetti ‘folli’ hanno iniziato a costituirsi come PERSONE, con i loro legami, con la loro storia, con dei loro sentimenti che a loro volta avevano suscitato in noi vissuti profondi e contraddittori: sentimenti che non ci piacciono, vergogna, rabbia, dolore, altri che neanche pensavamo di conoscere, disgusto, impotenza, onnipotenza, paura, contaminazione, pena, commozione, fascinazione, esclusività, angoscia, e poi la curiosità accompagnata dalla voglia di richiudere la porta, di svicolare via, nasconderli ai nostri stessi occhi…

Ormai tutto questo, come abbiamo già detto, fa un po’ più parte della nostra vita ‘esplicita’, e della storia del gruppo, ed è già un ottimo risultato, faticosamente guadagnato, ma è evidente un grande limite, tutto questo ancora riguarda solo il nostro passato, incontri resuscitati dal nostro personale passato…

Nasce allora spontaneo un nuovo interrogativo: come reagiremmo se ORA in questo momento QUI in questa stanza incontrassimo UNO DI ‘LORO’, una persona la cui esistenza è stata in vari modi alienata, distorta, stravolta?

Riusciremmo davvero ad andare OLTRE le rassicuranti descrizioni nosografiche? Oltre il bisogno di etichettare? In che modo potremmo essere condizionati dai nostri vissuti appena smossi? Cos’altro si produrrebbe in noi?

Allora perché non incontrare davvero qui ora queste persone e vedere … ‘che effetto ci fa’…

Facile a dirsi: come fare a realizzare questo incontro?

Ecco un problema all’apparenza, e forse radicalmente, irrisolvibile.

Non siamo certo a fine ‘800, quando Kraepelin portava una paziente catatonica nell’aula universitaria sotto gli occhi di decine di studenti, descrivendo crudamente le sue condizioni psichiche, come se la sua vita, la sua anima, i suoi sentimenti fossero lì stesi su un tavolo anatomico, l’anatomia della follia, e lunghe lacrime rigavano quel volto immobile, il corpo magari contenuto in lenzuola dette camicie di forza…

Quindi di persona no, troppo doloroso, crudele, in che contesto, con che risultato… con che senso…

Si affaccia una ipotesi… forse con esperienze così dirompenti basterebbe anche un incontro indiretto, mediato, a farci ‘sentire’, a provocarci, a farci reagire in qualsivoglia modo.

Allora l’idea: ne porto tra noi  tre, qui nel gruppo, che ci permetteranno di conoscerle e di entrare in comunicazione con loro. Per l’occasione facciamo diagnosi con il DSM V. Vi faccio conoscere Renée, una donna schizofrenica[2]Kay, una psichiatra affetta da disturbo bipolare[3] e Valentina, una giovane con disturbo di personalità borderline[4].

Ma… come faccio a portarle a scuola?

Queste tre donne straordinarie e coraggiose hanno scritto la loro esperienza ‘folle’, hanno narrato ‘sfacciatamente’ al mondo con dei libri la loro storia, ci hanno raccontato dal di dentro cosa si prova, come insorge subdolamente quel ‘qualcosa’ che ha trasformato radicalmente la loro esistenza, quella quotidiana, familiare, sociale (fenomenologicamente il loro ‘mit-dasein’ in un ‘um-welt’), e le ha portate tragicamente in un’altra dimensione esistenziale, difficilissima da esprimere in un linguaggio condiviso e condivisibile. Ma loro ci tentano, tentano di raccontarci come la loro vita sia stata scossa alle radici , spezzata, travolta dalla ‘follia’, da un nuovo modo di sentire, o di non sentire più, gli Altri, in un mondo che aveva perso i suoi significati scontati e condivisi, per assumerne di assurdi, fino a poter esistere solo in mondi propri alienati. L’autismo, la metamorfosi dei significati, il delirio che clinica e psicopatologia ci propongono, per esempio. ‘Come se finisse il mondo’ dice Borgna.

Otre a raccontarci in prima persona la loro dolorosissima modalità esistenziale alienata, ci conducono poi a percorrere quella interminabile via crucis che man mano diventa il loro vivere ‘fuori dal mondo pur tuttavia facendo parte del mondo’, via crucis le cui stazioni sono segnate dalla trasformazione, rottura, ridefinizione  dei loro rapporti coi familiari, col lavoro, cogli amici, l’in/contro/ scontro coi curanti, psicoterapeuti, psichiatri, la necessità di lunghi ricoveri in cliniche, percorsi in comunità, dosi pesantissime di farmaci…

Propongo quindi al gruppo di leggere loro a voce alta, brani tratti dalle coraggiose autobiografie di queste tre donne e chiedo a ciascuno, come prima, di cercare una posizione ad occhi chiusi che permetta loro un ascolto profondo, ascoltare non tanto con la testa, quanto nel corpo, nel respiro, nei muscoli, e lasciare emergere vissuti, vuoto, sensazioni.

È molto difficile parlare di quello che può sollevarci e provocarci nell’animo il dolore dell’esperienza psicotica, preferisco quindi lasciare la parola alle nostre counselors, che un po’ magicamente, come in una narrazione voluta e costruita ad hoc, ma invece generatasi spontaneamente, coi due successivi frammenti poetici, il secondo e il terzo, ci dicono molto su ‘l’effetto che fa’.

Il secondo frammento è riferito chiaramente all’incontro con Renée, attraverso il Diario di una schizofrenica.

 ho un dolore forte alla spalla e al collo. Credevo di essere sveglia,

invece dormivo. Nel sonno ero sveglia e non provavo alcun

dolore. Sognavo? Sognavo di essere sveglia! Ora con questa

nuova consapevolezza ho mal di gola, mi sento di colpo malata.

Sono confusa. Due mondi si sono intrecciati. In entrambi pensavo

di essere sveglia, ma in almeno uno dormivo. Ero sveglia in un

sogno molto reale, ero col mio gruppo e ascoltavo una voce che

raccontava la testimonianza di una donna schizofrenica. Ho

ancora questa voce nelle orecchie, ma del contenuto nulla. Mal di

stomaco. Stordimento. Vivere il sogno e sognare la vita.

Un intrecciarsi di realtàreali. Ma cosa è reale?

ho un dolore forte alla spalla e al collo. Credevo di essere sveglia, invece dormivo”  Non mi vergogno, ho il coraggio di ammetterlo a voce alta, di fronte a tutti: ho dormito, sono caduta addormentata durante la lettura dei brani autobiografici di questa donna schizofrenica. Ma più che vergognosa sono sconcertata, ero proprio convinta di essere sveglia. È il mio corpo che mi rivela di colpo che invece dormivo. Che vuol dire? È lui, il corpo, la presenza di dolore greve, rozzo a ridarmi l’orientamento nel reale? “Nel sonno ero sveglia e non provavo alcun dolore. Sognavo? Sognavo di essere sveglia! Ora con questa nuova consapevolezza ho mal di gola, mi sento di colpo malata. Sono confusa. Quante domande! Ero sveglia nel sonno? Provavo dolore? Sono turbata, faccio fatica a raccapezzarmi, a ritrovare un filo logico… forse sognavo! Un abbozzo di consapevolezza fugace, poi la gola si stringe, fa male, una morsa d’ansia. Non sto ancora bene, ancora nebbia. Mi avvoltolo su me stessa, sulle mie percezioni offuscate. “Due mondi si sono intrecciati. In entrambi pensavo di essere sveglia, ma in almeno uno dormivo”. … devo riprendermi, ho bisogno di sapere, di capire, chi ero, dove ero… ho vissuto in due mondi intrecciati, ed in entrambi pensavo di essere lucida, in contatto col reale, orientata, capace…  Assurdo! Ero scissa? No, non sono matta. In realtà in uno dormivo, uno dei due mondi era irreale. …Ma quale? “Ero sveglia in un sogno molto reale, ero col mio gruppo e ascoltavo una voce che raccontava la testimonianza di una donna schizofrenica. …Ho ancora questa voce nelle orecchie, ma del contenuto nulla”. Pian piano inizio ad orientarmi… ecco… La realtà chiara tangibile reale cui partecipavo col mio gruppo era letteralmente affondata nel sogno! La realtà era andata incontro a una metamorfosi… era diventata quasi incorporea, sempre più distante…. si stava trasformando in una realtà irreale… sparite le parole, le storie, rimanevano la voce, la presenza degli altri, immersi in una atmosfera perturbata, confusa, angosciosa… Sono sempre più inquieta.Mal di stomaco. Stordimento…Vivere il sogno e sognare la vita. Un intrecciarsi di realtà  reali. Ma cosa è reale?”  Sono quasi senza parole. L’ansia mi torce lo stomaco. Il corpo è vivo, fa male, la mente invece è stordita. Ho paura di non potermi più orientare, di non saper più distinguere. Sono perplessa, mi interrogo, ero viva nel sogno? Ho sognato la vita? Ci sono tanti piani di realtà, ciascuno reale a suo modo forse, “un intrecciarsi di realtà reali.   Sento il rischio di perdermi e di perdere un qualche contatto con la realtà… quale? Sale di nuovo l’ansia, ho bisogno di capire davvero “ma cosa è reale?

 

Ora abbiamo davvero bisogno di  una qualche bussola  per orientarci.  

Incontrare l’esperienza psicotica non ci lascia mai indifferenti, anche se ci addormentiamo. In questo frammento è espresso bene quanto complesso in realtà sia stato il nostro percorso solo apparentemente, semplicemente ‘dormiente’. Al nostro risveglio ci rendiamo conto che non è più così semplice, banale distinguere tra realtà e veglia da un lato, sonno e sogno dall’altro. Tutto è più complesso e confuso, abbiamo sperimentato un cambiamento nella qualità della realtà, lucida… opaca, siamo restati impigliati in un clima perturbato, vulnerabile, senza chiari confini, siamo perplessi, pieni di mille domande…

Che è successo? Abbiamo assaporato un sentimento di irrealtà che non conoscevamo, e che ha plasmato i nostri vissuti, producendo turbamento, vissuti di incorporeità, un’angosciante perplessità. In modo leggero, per fortuna, ma già sufficiente a farci sentire quanto sia drammatico confondersi, perdere orientamento e confini.

Come ha potuto succedere? A nostra insaputa, intervenuto un sonno-sentinella a proteggere la nostra integrità psichica, le nostre regioni profonde dell’anima hanno in realtà attentamente ascoltato e risuonato con i vissuti di Renée, che ci hanno sommessamente ma implacabilmente  ‘contagiati’.

È un’assurdità? Più ‘folle’ di Renée? Prendiamo la prima pagina della sua autobiografia, proprio all’inizio della lettura: questa ‘donna schizofrenica’ incomincia la sua storia  raccontandoci  che a sette anni la sua vita fu sconvolta per la prima volta dall’irrompere di un sentimento di irrealtà radicale e terribile, quando tutto quello che vede e sente intorno a lei, per degli attimi che sono eterni, si trasforma e si deforma precipitandola nel terrore. È l’incipit ed è già l’affacciarsi dell’angoscia psicotica, col suo portato di trasformazione di significati nel mondo. Un affacciarsi che segna un prima e un dopo, e un inizio di una lunga lotta.

Allora chiediamoci: sono poi così distanti i nostri vissuti dai suoi? Da un certo punto di vista sì, radicalmente, il nostro mondo è offuscato ma non trasformato di senso come il suo. Da un altro punto di vista, tutto quanto abbiamo provato, come il turbamento inquieto nella percezione della realtà, il sovrapporsi di stati di veglia-sonno-sogno, la confusione angosciata generatasi tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tutti questi nostri vissuti non possono forse costituire un ponte tra noi e lei? La qualità delle nostre percezioni in uno stato di coscienza inquieto, crepuscolare, oniroide, non ci può davvero avvicinare allo strano incomprensibile mondo di Renée, quell’iniziale e lungamente presente sentimento dell’irrealtà che poi la porterà al ‘Paese della Luce’, al ‘Sistema’, al delirio?

Ripensiamoci: quanto abbiamo vissuto ci può rendere più vicino , più accessibile, il suo stato d’animo psicotico, renderlo più ‘ascoltabile’ e meno folle, e rendere lei meno aliena e più viva? La sua esistenza ‘vuota’ può acquistare spessore, può significarci qualcosa? Dall’ascolto della sua tragica esperienza, può nascere qualcosa che risuona in noi e può eventualmente costruire una possibilità di incontro, di condivisione muta?

Forse sì, anche noi abbiamo fatto un piccolo viaggio nelle lande desolate dei vissuti di irrealtà. Ne sappiamo ora qualcosa.

Ecco ora con il terzo frammento, entriamo in un’altra modalità sia di esperienza psicotica sia di entrarci in contatto. Modalità che potremmo chiamare ‘calarsi nel crepaccio, nell’abisso’.

Non ho confini, mi perdo e ho paura. I piedi diventano immobili, come se fossero immersi nel cemento.

Paura di restare fuori, fuori dal mondo.

Paura e angoscia, ma cos’è l’angoscia?

Angoscia è la paura travestita da tutto, perdersi e non ritrovarsi, sprofondare in un pozzo buio senza fondo e non sapere se è possibile risalire.

Oscurità, freddo e gelo. Prende tutto: trasforma e aggredisce.

Mi sento sola, fuori controllo, devo tenere gli occhi aperti non voglio perdermi.

Ho il timone, ho le radici, ho l’àncora, ho le vele, ho le ali per volare.

Ancorarsi, radicarsi, fluttuare ma non vorticare, posso perdermi ma poi mi ritrovo. Non mi perdo del tutto.

E questa è la mia àncora, ancora.

Quanto dolore ognuno di noi si porta dentro.

Bisogna imparare ad avere cura della sofferenza e del dolore.

Bisogna imparare a condividere quello che proviamo.

Credo che sia immediato cogliere il profondo e netto cambiamento di registro: non siamo più nel contatto con il mondo psicotico iniziale, quando fluttuiamo tra l’angoscia della perdita di senso, di contatto col mondo, e il tentativo di fuggirla, di negarla, di tornare alla realtà concreta in un confuso ansioso stato di coscienza crepuscolare.

Qui siamo già dentro.

A mio parere nella prima parte questo frammento condensa poeticamente i tratti peculiari dell’angoscia psicotica, con tutti i suoi vissuti contraddittori, devastanti, che trasformano il corpo, l’esperienza spaziale, la temporalità, l’essere nel mondo e con l’Altro. Non è riferita a una delle esperienze in particolare, direi che tocca seppure diversamente, tutte quelle che abbiamo incontrato nella lettura autobiografica.

Non ho confini, mi perdo, ho paura . Chi non conosce, almeno teoricamente, come patognomonico dell’esperienza psicotica questo confluire tra sé e il mondo, questo nostro perderci nel mondo e del mondo dentro di noi, questo diventare all’unisono  col mondo, un unisono angosciato, radicalmente diverso dai magici momenti in cui ci ‘perdiamo’ nel contatto con la meraviglia del mondo, sentendovi le nostre radici, la nostra appartenenza. Qui, nel frammento, siamo disancorati, ci perdiamo, abbiamo paura.

I piedi diventano immobili, come se fossero immersi nel cemento” . Ecco ora Renée avrebbe detto che i suoi piedi ‘sono’ di cemento, ha spesso perso nella sua follia il ‘come se’, il suo vissuto è diventato oggetto concreto, realtà tangibile. Parole e vissuti diventano pietre nella modalità esperienziale psicotica. Ma se mettiamo tra parentesi la diagnosi, qui il corpo ci parla dei vissuti, ed il vissuto dell’immobilità cementificata lo possiamo sentire risuonare dentro di noi, ci può evocare mondi ed esperienze ‘normali’, e le angosce terribili che le sottendono…. la morsa di una palude, i cementi mafiosi, le lapidazioni…

Paura di restare fuori, fuori dal mondo”. L’essere fuori dal mondo condiviso, la perdita del sentimento di base di familiarità col mondo, è di nuovo un tratto costitutivo dell’esperienza psicotica, con il suo progettarsi in mondi alieni ed alienati, caratterizzati da una temporalità e una spazialità ‘altra’ ed ‘oltre’. Il sentimento di appartenenza a un mondo comune, il progettare la nostra esistenza come esser-ci ed essere-con: tutto ciò si spezza, e poi si vengono a creare mondi deliranti più reali del reale con cui si è perso contatto. Questa possibilità esistenziale di non esistenza, o di presenza vuota, deietta, si affaccia e ne abbiamo paura, forse terrore.

Paura e angoscia, ma cos’è l’angoscia? Angoscia è la paura travestita da tutto, perdersi e non ritrovarsi, sprofondare in un pozzo buio senza fondo e non sapere se è possibile risalire” . Mi interrogo, intuisco la differenza radicale tra paura ed angoscia, la paura non è più di qualcuno, di qualcosa, ma è ‘travestita da tutto’, investe tutto, e soprattutto il Sé che si perde, il proprio sentirsi vivi. Ecco poi una sua particolare declinazione, l’angoscia di morte, il non sapere se sarà possibile ritrovarsi, risalire dal pozzo buio e senza fondo. Si è soverchiati e trascinati, nostro malgrado. Siamo naufraghi degli abissi. “Paura freddo gelo. Prende tutto: trasforma ed aggredisce”. L’angoscia non ci lascia scampo e con violenza trasforma: cosa? È l’affacciarsi della metamorfosi di senso, del significato delle cose, del mondo. Intuiamo forse l’angoscia di fine del mondo dell’esperienza schizofrenica, e la conseguente creazione di nuovi significati e mondi, persecutori, onnipotenti.

Ora il frammento continua ricostruendo la differenza tra chi sprofonda  nell’angoscia di morte, e chi la assaggia, ma sa anche risalire.

Mi sento sola, fuori controllo, devo tenere gli occhi aperti non voglio perdermi. Ho il timone, ho le radici, ho l’àncora, ho le vele, ho le ali per volare”.  L’essere entrati dentro l’angoscia psicotica potrebbe portare, porta Renée, all’onnipotenza. È l’abdicare finale dalla propria esistenza torturata per consegnarsi ad un mondo sinistro, abitato dal Terribile e dall’Inquietante. Qui invece nel gruppo dei counselors entrano in campo sentimenti come la solitudine, l’impotenza, l’importanza di essere vigili e quindi si illumina la consapevolezza di quanto siamo piccoli, fragili. Nel cuore della tempesta viene fatto l’inventario degli strumenti che comunque abbiamo: probabilmente non la bussola, che forse nella furia delle onde e del vento non servirebbe nemmeno, ma c’è il timone, le radici, le vele. possiamo cercare di restare a galla pur sentendoci già persi. Si hanno ali per volare, per risalire dal pozzo, ma bisogna essere mosche, farfalle, non immaginare di essere aquile.

Ancorarsi, radicarsi, fluttuare ma non vorticare, posso perdermi ma poi mi ritrovo. Non mi perdo del tutto. E questa è la mia àncora, ancora”. Devo ancor più radicarmi, ancorarmi, così che le onde dirompenti dell’angoscia non riescano a trascinarmi  nel loro vortice. Possiamo perderci nell’angoscia, ma non del tutto, riusciamo seppure a fatica ri-trovarci, a trovare di nuovo noi stessi, il senso della nostra esistenza. Abbiamo un’àncora, ci sono radici che tengono: il Ground è solido, sappiamo orientarci, ritrovarci-nel- mondo e nei suoi significati. L’angoscia psicotica di Renée, e di Kay, e anche quella intermittente di Valentina, invece riescono a disancorare le loro esistenze, a portarle in altri mari, non voluti, non cercati, a farle perdere nelle nebbie, novelle Martin Eden.

Ed infine maturano nuove consapevolezze.

Quanto dolore ognuno di noi si porta dentro.

Bisogna imparare ad avere cura della sofferenza e del dolore.

Bisogna imparare a condividere quello che proviamo.

Che cosa ci può  avere insegnato tutto questo? Proviamo a rileggere se abbiamo voglia, il primo frammento, quando ci siamo faticosamente affacciati a questi mondi sommersi in sé e nel nostro passato. Quanta strada abbiamo fatto! Eccoci acquisire nuove consapevolezze sull’esistenza umana, su quanto dolore è nascosto dietro le nostre facciate spesso da ‘Mulino Bianco’, o come ‘sepolcri imbiancati’: vogliamo proteggerci, ma in realtà ci isoliamo, ci mascheriamo, blocchiamo la possibilità di essere-con l’Altro in modo fluido e sostenente. Quanto invece in realtà siamo piccoli e fragili e dobbiamo imparare ad avere cura della sofferenza e del dolore, nostro ed altrui. E quanto è fondamentale per noi umani sviluppare la nostra esistenza in quanto abitatori di un mondo condiviso, l’Umheit, ed imparare anche a condividere quello che nel primo frammento era fonte di vergogna, di rabbia.

La cornice

Credo che possiamo riemergere per un momento dalla complessità di questi incontri, e così concludere questa seconda tappa del seminario, dandovi la cornice, raccontandovi come si articola concretamente.

In genere prevedo di dedicare alcune ore a ciascuna di queste modalità esistenziali, quella schizofrenica con Renée, quella bipolare con Kay e quella borderline con Valentina. In breve, ciascuna fase inizia  con la  lettura in gruppo di brani tratti dalla storia di una di loro, quindi dopo l’ascolto in un raccoglimento meditativo, condividiamo i vissuti e li visualizziamo sul cartellone, lavoro che ci permette una prima sistematizzazione ed elaborazione. Poi sempre in gruppo cerchiamo un confronto, gli echi, il risuonare di questi nuovi vissuti con i vissuti emersi nella prima tappa del lavoro, quella centrata sulla rievocazione di nostre esperienze passate. Fin qui rimanendo nel campo esperienziale. A livello teorico poi cerchiamo di individuare le connessioni di tutto il materiale emerso con due linguaggi completamente diversi: da un lato l’approfondimento e la ricerca di senso in base alla psicopatologia fenomenologica e gestaltica, dall’altro il riferimento alla sintomatologia così come è proposta dalla diagnosi descrittiva, ovvero il  loro inquadramento attuale nei DSM IV,V .

Un lavoro molto complesso, affascinante e faticoso, che ha come obiettivo proprio portare alla luce la possibilità di nuovi mondi, altre modalità di esistenza… mancata, come dice Binswanger, ma sempre esistenza e di enorme spessore, anche quando si configura come ‘presenza vuota’. Scopriamo che la follia non è mai solo descrivibile come nudo e riduttivo elenco di sintomi.

 LA TERZA TAPPA: L’INCONTRO

Nelle ultime ore del corso è il gruppo dei partecipanti che decide, sceglie come procedere: le ultime ore sono dedicate a raccogliere l’esperienza fatta, a rilassarla, metabolizzarla.

Può essere chiesta una supervisione su un caso, possiamo fare un esperimento, possiamo intrecciare interrogativi, domande, critiche. Può essere chiesto di approfondire una tematica specifica, la violenza e la pericolosità, l’abuso, i farmaci, il come e dove vengono curate, prese in cura, queste persone che vivono esperienze ai limiti dell’umano.

È vero quindi che l’ultima parte del corso differisce molto da gruppo a gruppo, ma in genere ruota attorno a un focus ben definito: l’incontro con la persona con esperienze psicotiche o comunque ai limiti, al limes dell’appartenenza ad un mondo comune e comunicabile.

Come rapportarci con queste persone che possono chiederci in qualche modo aiuto? Come, con che strumenti, con che rete possiamo cercare di aiutarli se siamo psicoterapeuti? Come possiamo aiutarli a comprendere senza offenderli che non possiamo aiutarli se siamo dei Counselor, ma che soprattutto possiamo accompagnarli nella ricerca di un buon aiuto efficace e competente? Chi ci può aiutare a riconoscerli nella profondità della loro angoscia e darci strumenti, orientamenti….

Nel weekend si è vero diventiamo un po’ subacquei….

Il quarto frammento parla proprio dell’incontro tra chi si prende cura e chi chiede aiuto, spesso in codici astrusi , straordinari, poetici.

Si può parlare di Realtà fluida?

Un velo sottile separa la terra delle percezioni normali” dal paese delle percezioni alterate e deformate,

dove non esistono più misure, né confini certi. Cosa sono questi brividi , questa angoscia che sento, mentre tu mi racconti delle tue realtà?

Cosa vedi tu, che io non vedo?

Cos’e? questa voglia di fuggire che sento?

Mi sento sul filo, dove tutto sfuma, vorrei portarti con me da questa parte,

ma… ho paura di cadere nel Tuo mondo di Dolore anch’io.

Ecco siamo andati  oltre il marchio, lo stigma, o semplicemente la diagnosi descrittiva con il suo compito di ‘riordinare ‘la follia’ (!): operazione che permette sì la comunicazione clinica, ed è alla base delle linee guida farmacologiche, quindi operazione utile, ma giocoforza riduttiva e livellante rispetto alla com-prensione della persona e del suo mondo.

E che cosa abbiamo scoperto dell’Altro folle? Se non è più un mucchietto di sintomi, un disturbo mentale, cosa è? Forse, incrinatasi la ‘barriera’ tra noi e loro, abbiamo iniziato a scoprire il suo essere persona con una propria personalissima visione del mondo, un mondo dominato da una abissale e disperata angoscia e da una radicale trasformazione dell’esser-ci e dell’essere-con l’altro, della struttura del tempo e dello spazio. Un mondo che da incomprensibile e distante, seppure doloroso, è diventato più decifrabile. Nascono conseguentemente gli interrogativi: è possibile relazionarci con loro? In che modo? Con che possibilità? Che rischi? Dov’è il possibile punto di incontro?

Si può parlare di Realtà fluida? Un velo sottile separa la terra delle percezioni normali” dal paese delle percezioni alterate e deformate, dove non esistono più misure, né confini certi . Può esistere UN’ALTRA REALTÀ, un’altra dimensione della realtà, una realtà Realtà Fluida, in cui non esistono più ‘misure e confini certi’? Possiamo noi ‘normali’, noi abitatori della ‘terra delle percezioni normali’, essere separati soltanto con un VELO SOTTILE dal ‘paese delle percezioni alterate e deformate’? Interrogativi inquietanti, che ci mettono a nudo, noi e il nostro mondo sommerso, misterioso, e che hanno attraversato non solo la storia della psichiatria, ma anche quella della filosofia, delle religioni e della spiritualità umana nel corso dei secoli. Le domande di fondo, che nascono quando  tocchiamo quelle che Jaspers definisce le situazioni limite dell’esistenza umana. “Cosa sono questi brivido, questa angoscia che sento, mentre tu mi racconti delle tue realtà? Cosa vedi tu, che io non vedo? Cos’e? questa voglia di fuggire che sento?”  Ora siamo a contatto con il nostro corpo, che manda segnali, brividi, voglia di fuggire. A quante domande ci chiamano queste esistenze tormentate e tormentanti, che non trovano e non danno tregua. In che mondo abiti? Quali sono le tue realtà? Cosa vedi che io non vedo? L’allucinazione da falsa percezione diventa un’esperienza vissuta altra, separata dalle nostre solo da un velo sottile, e quindi ora umana, intuibile, portatrice di senso. E che soprattutto proprio per questo possiamo interrogare, interpellare, tentare di conoscere. Diventiamo antropologi alla Levi Strauss, andiamo ad abitare altri mondi per scoprirne le logiche portanti, le intenzionalità, le fratture. Ma come tutti gli esploratori di mondi nuovi, siamo ora più consapevoli, attrezzati, vigili. E ci interroghiamo anche sulla nostra voglia di fuggire, di sviare gli occhi da queste realtà ‘altre’ ed aliene. “Mi sento sul filo, dove tutto sfuma, vorrei portarti con me da questa parte, ma…. ho paura di cadere nel Tuo mondo di Dolore anch’ io”. Un filo sottile separa il mio mondo dal tuo, la mia angoscia sfuma nella tua, i miei vissuti nei tuoi. I due mondi si toccano e possono precipitare uno nell’altro: non più una barriera, un robusto muro che distingueva modalità esistenziali chiare, la normalità e la follia, ma un limes sottile, incerto, che inquieta profondamente, che ci interpella. Nasce il desiderio umanissimo, e professionale, di ‘salvare’ l’altro, ma ecco sorge insieme la paura, anche questa umanissima e realissima, di cadere nel suo ‘mondo di Dolore’. Nel crepaccio diceva un nostro paziente.

Queste sono le provocazioni, i semi, che vorrei portare agli allievi nel corso del seminario, poter produrre almeno in alcuni curiosità per questi mondi così diversi e così complessi, profondi, radicali nella loro esperienza in sé e in quelle che riecheggiano e suscitano in noi, negli abissi dei nostri vissuti alieni. Aprire qualche possibilità di contatto, di incontro, di relazione umanissima, fragile e profonda, la vera terapia.

Vorrei a questo proposito citare Kay, donna col doppio occhio, di chi cura ed è curato, anzi triplo, quello anche di chi rifiuta le cure, coraggiosa psichiatra americana che ha attraversato gravissime esperienze maniacali e depressive.

“A questo punto dell’esistenza non riesco a immaginare di poter condurre una vita normale senza prendere il litio e senza aver goduto dei benefici della psicoterapia. Il litio impedisce i miei alti seducenti ma disastrosi, attenua le mie depressioni, elimina la confusione dal mio pensiero disordinato, mi fa rallentare, mi addolcisce, mi impedisce di rovinare la mia carriera e i rapporti con gli altri, mi tiene fuori dell’ospedale, mi tiene viva e rende possibile la psicoterapia. Ma ineffabilmente la psicoterapia guarisce. Dà un senso alla confusione, frena i pensieri e le sensazioni terrificanti, restituisce il controllo, la speranza e la possibilità di imparare da ciò che è accaduto. Le pastiglie non addolciscono, non possono addolcire, il ritorno alla realtà; ti riportano indietro a testa bassa, sbandando, e più in fretta di quanto a volte si possa sopportare. La psicoterapia è un rifugio, un terreno di battaglia, un luogo dove sono stata psicotica, nevrotica, esaltata, confusa e disperata da non credersi. Ma è il luogo dove ho sempre creduto, o dove ho imparato a credere, che un giorno sarei stata capace di tener testa a tutto ciò. Non c’è pastiglia che possa aiutarmi a risolvere il problema di non voler prendere le pastiglie, così come la psicoterapia non può impedire le mie depressioni e le mie manie. Ho bisogno di entrambe. È strano dovere la vita alle pastiglie, alla propria peculiarità e tenacia e a questo dialogo unico, sorprendente e profondissimo chiamato psicoterapia.

Ed ecco vorrei concludere con  le straordinarie parole di un poeta, filosofo, scrittore francese vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, sulla ‘relazione che cura’:

Curare è anche una politica.

Può essere fatto con un rigore di cui la dolcezza e? il rivestimento essenziale. Un’attenzione squisita alla vita che si veglia e si sorveglia.

Una precisione costante.

Una sorta di eleganza negli atti.

Una potenza e una leggerezza.

Una presenza e una sorta di percezione molto attenta che osserva i minimi segni.

È una sorta di opera, di poema (mai scritto) che la sollecitudine intelligente compone.

(Paul Valery)

 

Qui sotto trovate il link alla versione dei frammenti poetici “INTRECCIO TRA AMORE E MALATTIA” così come ideata dal gruppo “GC15” al 3° anno di counseling. come gestaltisti sappiamo quanto la forma influenzi il contenuto, scaricando il file potete vedere quale forma il gruppo ha scelto di dare alle proprie parole.

TESTO COLLETTIVO COLONNE.pdf

si ringraziano le autrici e gli autori annamaria, barbara, carla, chiara, henry, irene, judith, lu, luciana, monica, moreno, sandra, stefano, valentina

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