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L’approccio neuropsicologico allo studio della coscienza e del sé

L’approccio neuropsicologico allo studio della coscienza e del sé
Neppi Marco (Professore associato di Neuropsicologia e Neuroscienze cognitive, Dipartimento di Psicologia, Università di Torino)

Storicamente la coscienza è stata oggetto di studio prevalentemente da parte delle scienze umane, in primis la filosofia e successivamente la psicologia. In ambito filosofico il dualismo cartesiano mente/corpo ha relegato per molto tempo ‘il mentale’ in una dimensione ontologica, impedendo che divenisse oggetto di studio da parte delle scienze naturali; in ambito psicologico la dicotomia coscienza/inconscio ha avuto conseguenze analoghe [nonostante lo stesso Freud (1895) avesse proposto una teoria della mente fondata sulla ricerca neurofisiologica da lui condotta]. Tuttavia, a partire dagli anni ’80 del XX° secolo la coscienza ha conquistato una propria dignità scientifica anche all’interno delle scienze biomediche e psicobiologiche, in particolare all’interno delle neuroscienze cognitive e della neuropsicologia. Si tratta di un vero e proprio cambiamento paradigmatico, reso possibile in primis dalla convinzione da parte di alcuni influenti neuroscienziati che la dimensione intrapsichica dell’esperienza consapevole potesse essere studiata con metodo scientifico e contribuire a rivelare i meccanismi neurocognitivi sottostanti il funzionamento della sfera psichica cosciente e inconscia (o inconsapevole) (Marcel & Bisiach, 1988). In particolare, in questi anni incominciano ad essere studiati e pubblicati casi di pazienti con lesioni cerebrali che presentano dei disturbi di consapevolezza motoria o spaziale apparentemente inspiegabili in base alla nozione di coscienza adottata dal senso comune. Si tratta di soggetti che, nonostante abbiano perso la capacità di movimento di una metà del corpo (emiplegia) o la capacità di percepire e concepire una metà dello spazio esterno (negligenza spaziale), tuttavia si comportano come se non ne fossero consapevoli (anosognosia) (Berti, Garbarini, Neppi-Modona, 2014). In alcuni casi di emiplegia, i pazienti sono così convinti di potersi muovere normalmente che questa convinzione resiste anche di fronte all’evidenza del contrario. Per es., se lo sperimentatore chiede a questi pazienti di muovere il braccio paralizzato, essi affermano di averlo fatto, e accampano scuse inverosimili se lo sperimentatore fa loro notare che il braccio non si è mosso: “Era stanco” rispondono, oppure “E’ andato a fare due passi”. 

Altre patologie della consapevolezza scoperte dai neuroscienziati cognitivi sono per esempio il ‘blindsight’, o visione cieca, la emisomatoagnosia, la sindrome della mano aliena, l’’embodiment’ e la somatoparafrenia. Nel ‘blindsight’ (Weiskrantz, 1986), una lesione alle aree visive primarie nella corteccia occipitale produce cecità. Tuttavia i pazienti rimangono in grado di percepire la posizione degli stimoli e il loro orientamento se si chiede loro di indovinare con un movimento degli occhi o del braccio la posizione o l’orientamento dello stimolo che affermano di non avere visto; in questo caso, la residua consapevolezza della posizione/orientamento degli stimoli sembra dipendere da informazioni visive che dalla retina giungono ad aree visive secondarie senza passare dalla corteccia occipitale, responsabile della visone consapevole. Nel caso della emisomatoagnosia (Bisiach, 1999) i pazienti dopo una lesione cerebrale destra non riconoscono più come propria la metà sinistra del loro corpo.  Nella sindrome della mano aliena (Biran & Chatterjee, 2004),  i pazienti riconoscono l’arto controlesionale come proprio, ma riferiscono che si muove indipendentemente dalla loro volontà. Infine, nel caso dell’embodiment (Garbarini et al., 2013), alcuni pazienti emiplegici, benché consapevoli dell’emiplegia, in certe situazioni incorporano nel loro schema corporeo l’arto dello sperimentatore scambiandolo per il proprio ed essendo convinti di aver riacquistato il movimento. Invece nella somatoparafrenia succede un fenomeno apparentemente opposto, cioè una parte del proprio corpo viene ‘scorporata’ e considerata appartenente al corpo di un’altra persona.

Ciò che accomuna queste sindromi neuropsicologiche è il fatto di mostrare l’esistenza di disturbi della sfera della coscienza circoscritti all’interno di specifiche dimensioni cognitive (per es. quella visiva, motoria o corporea) con network neuronali dedicati, rivelando che il concetto di coscienza alla base del sé non è unitario, ma multicomponenziale, o modulare. Il senso comune e, soprattutto, il nostro vissuto, ci suggeriscono che la coscienza è una e indivisibile, mentre i dati neuropsicologici ci dicono che esistono molteplici coscienze che emergono, ognuna, all’interno di una diversa funzione cognitiva, e che il senso del sé, probabilmente, è il risultato dell’integrazione di queste diverse ‘coscienze parziali’. In sostanza i risultati di queste ricerche ci suggeriscono che il senso di unità dell’io e del sé sono una illusione. Le neuroscienze cognitive sono giunte a questa conclusione controintuitiva e spiazzante  applicando il metodo scientifico della correlazione anatomo-clinica ai disturbi della consapevolezza spaziale, motoria e corporea rivelati osservando il comportamento patologico dei pazienti e dando dignità scientifica al loro vissuto.

Per quanto riguarda lo studio dei disturbi della consapevolezza spaziale (negligenza spaziale), la ricerca ha dimostrato che la lesione ad alcuni distretti cerebrali dell’emisfero destro (aree parietali inferiori) priva l’individuo della consapevolezza dell’esistenza della parte sinistra dello spazio egocentrico esterno, eliminando nello stesso tempo anche la consapevolezza di soffrire di questa patologia (anosognosia) ma senza alterare altre sfere di consapevolezza o il senso dell’integrità del sé. Infatti, i pazienti con neglect non hanno problemi a riconoscere uno stimolo se li obblighiamo a prestarvi attenzione, e non hanno alcun disturbo psichiatrico. “L’ipotesi è che il danno cerebrale abbia colpito la rappresentazione dello spazio controlaterale alla lesione, lasciando intatti l’identificazione e il riconoscimento. Il danno alla rappresentazione dello spazio, inducendo una mancanza di consapevolezza relativa alla posizione spaziale degli stimoli ne impedirebbe l’accesso alla coscienza.” (Berti & Garbarini, 2013, p.391). Questa scoperta implica che esiste una consapevolezza (o coscienza) spaziale che rappresenta una funzione autonoma rispetto ad altri tipi di consapevolezza, con network neurali dedicati all’interno del sistema cognitivo (Bisiach, 1999, ibid.).

Un discorso in gran parte analogo vale per i disturbi di consapevolezza motoria. Nel caso dell’anosognosia per l’emiplegia, i pazienti negano con estrema convinzione di essere emiplegici, nonostante vedano chiaramente che il loro braccio non si muove. Alcuni importanti studi di ricercatori italiani (Berti et al. 2005; Berti & Pia, 2006), hanno rivelato che in questi pazienti è ancora presente tutta l’attività cerebrale che precede il movimento e che dà origine all’intenzionalità motoria e al senso di agentività (sense of agency), in quanto la lesione in genere risparmia le aree responsabili di queste funzioni;  invece danneggia una porzione specifica della corteccia premotoria e della corteccia insulare responsabile del monitoraggio dell’avvenuta esecuzione del movimento (cioè del confronto fra la copia interna del comando motorio- copia efferente- e il feedback sensoriale del movimento effettivamente eseguito). In assenza di questo modulo ‘comparatore’ il sistema motorio sarebbe incapace di verificare l’avvenuta esecuzione del movimento e quindi il paziente baserebbe la sua consapevolezza motoria solo sull’informazione interna al sistema (programmazione del movimento, copia efferente del comando motorio, intenzione all’azione, agentività, contrazione dei muscoli prossimali dell’avambraccio), la quale sarebbe sufficiente a creare la convinzione di aver mosso l’arto pur in assenza di movimento.

Lo stesso modello neurocognitivo, è in grado di spiegare anche la sindrome della mano aliena e l’embodiment. Nel caso della sindrome della mano aliena, il paziente è consapevole che il suo braccio si è mosso, e riconosce il braccio come proprio, ma riferisce di non avere preso la decisione di muoverlo: il braccio si è mosso da solo, senza che ci fosse da parte del soggetto l’intenzione di muoverlo. E’ quello che succede al Dottor Stranamore (Peter Sellers) nella scena finale dell’omologo film di Stanley Kubrick, quando il braccio destro del protagonista si muove da solo facendo il saluto nazista e il braccio sinistro cerca di fermarlo…. In questo caso il sistema di monitoraggio dell’azione funzionerebbe normalmente, mentre ad essere danneggiata sarebbe quella parte del sistema motorio del lobo frontale, comprensiva delle strutture sottocorticali e di una parte del corpo calloso, responsabile dell’inibizione degli atti motori non voluti. Nel caso dell’embodiment, invece, il problema riguarda il senso di ‘body ownership’, ovvero il senso di consapevolezza corporea, cioè il senso di appartenenza delle parti del corpo ad un tutto unitario che coincide con il proprio corpo. Questi pazienti, che sono emiplegici ma non anosognosici, incorporano parti del corpo altrui all’interno del proprio schema corporeo considerandole come proprie (Garbarini et al., 2013). L’ ’incorporamento’ avviene solo quando lo sperimentatore affianca il proprio braccio a quello plegico in modo che venga a trovarsi allineato alla spalla del paziente, non se si trova in una posizione incompatibile con quella prevista dallo schema corporeo (per es. orientato a 90° rispetto alla spalla).  Il fenomeno è così forte che se lo sperimentatore chiede al paziente di provare a muovere il suo braccio plegico e contemporaneamente muove il braccio, il paziente è convinto di aver riacquistato la capacità di muoversi; inoltre, se lo sperimentatore applica una scossa alla propria mano, il paziente è convinto di sentire dolore sulla sua mano e mostra le rispose psicofisiologiche corrispondenti alla sensazione dolorifica (Pia et al., 2013). Complementare a questo disturbo è la somatoparafrenia, cioè la ferma convinzione che una parte del proprio corpo sia in realtà appartenente al corpo di un’altra persona.

Anche se i meccanismi neurocognitivi sottostanti questi ultimi due disturbi non sono ancora stati chiariti, nel loro insieme le patologie della consapevolezza spaziale, motoria e corporea descritte fin qui suggeriscono in modo molto chiaro che, in caso di lesioni a porzioni circoscritte delle aree cerebrali che codificano lo spazio esterno, il movimento e lo schema corporeo, la consapevolezza spaziale, quella del sé corporeo e del sé motorio subiscono delle disfunzioni circoscritte sia da un punto di vista cognitivo che anatomico. Questo significa che una sensazione così radicata nella nostra autocoscienza come il fatto che il nostro corpo è uno e sempre lo stesso, che si muove intenzionalmente in forza di questo senso di unicità e che abita uno spazio soggettivamente percepito come unico, in realtà non ha una struttura unitaria e indivisibile, ma è il risultato di rappresentazioni multiple a livello spaziale e sensomotorio che possono essere alterate in modo autonomo per effetto di lesioni cerebrali circoscritte. Queste considerazioni ci suggeriscono che la coscienza, nonostante il vissuto soggettivo di unitarietà con cui si manifesta introspettivamente, ha in realtà una struttura modulare a livello anatomo-funzionale. Se si accetta questa prospettiva allo studio della coscienza, una delle domande cui diventa fondamentale dare risposta è dove e come avvenga nel cervello l’integrazione delle diverse coscienze modulari in un sé integrato. Altrettanto importante è verificare se questo approccio modulare allo studio della consapevolezza di sé, nato grazie alla rilevanza scientifica attribuita al vissuto soggettivo del paziente, possa portare a nuove scoperte sulle cause alla base dei disturbi dissociativi del sé, che rappresentano il sintomo principale della patologia schizofrenica (disturbo del senso di ‘ipseità’ e ‘scorporamento’ del sé (‘disembodiment of the self’). Proprio su questo tema si interrogano in un recente articolo Vittorio Gallese e Francesca Ferri (2014) apparso sulla rivista Psychopathology. Gli autori discutono la possibilità che alla base dei disturbi dissociativi schizofrenici ci possa essere una alterazione del senso di sé corporeo e agente (predisposto all’azione), una forma di distacco del sé dalle sue basi corporee somatosensoriali e motorie che porterebbe anche all’impossibilità dell’interazione sociale. Questa ipostesi sarebbe corroborata dai dati di diverse ricerche che dimostrano una alterazione delle rappresentazioni somatosensoriali (deficit di riconoscimento di proprie parti corporee), motorie (deficit nel discriminare se movimenti osservati sono propri o altrui) e dolorifiche (riduzione della percezione dolorifica) nei pazienti schizofrenici.

In conclusione, l’approccio delle neuroscienze cognitive e della neuropsicologia allo studio dei processi coscienti alla base del sé potrebbe contenere spunti utili anche alle discipline umanistiche interessate allo studio dei processi coscienti e inconsci alla base del senso del sé, come la filosofia e la psicologia, per arricchire i loro costrutti teorici con dati empirici che collegano il sè alle sue basi neurobiologiche. D’altra parte, parafrasando Merleau-Ponty, lo spazio (fisico e corporeo) è il mezzo attraverso cui le cose (compreso l’individuo) sono.

Bibliografia
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  • Marcel A. & E. Bisiach (eds.)(1988), Consciousness in Contemporary Science, Oxford University Press.
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  • Pia L., Garbarini F., Fossataro C., Fornia L., and Berti A. (2013) ‘Pain and Body Awareness: Evidence from Brain-Damaged Patients with Delusional Body Ownership’, Front Hum Neurosci. 2013; 7: 298.
  • Weiskrantz, L. (1986), “Blindsight: A Case Study and Implications”, Oxford: Oxford University Press.

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