728 x 90

Il volo interrotto

Il volo interrotto
Percorso polifonico attorno al fenomeno Hikikomori

“Piano piano fila la lana, ogni nodo a pettine viene. (…)
Se in un albero le radici non vanno bene, i rami che per primi dimostrano questa sofferenza sono quelli che stanno in fiore, quelli che sono appena nati, i ramoscelli, perché non hanno ancora una organizzazione tale che permette loro di sopravvivere in condizioni che non sono adatte. (Mariano Loiacono, Verso una nuova specie.Disagio diffuso, salute e comunità globale.Nuova Specie, Foggia 2000, p 156.)

Voglio ringraziare Pietro per il viaggio davvero polifonico e anche molto toccante, nel fenomeno relativamente nuovo dell’hikikomori, visto nella cornice del mutamento antropologico che stiamo ancora attraversando, dal dopoguerra ad oggi. Pietro esplora questo tema connettendo tra loro diverse anime, quella antropologica, quella etno psichiatrica, quella gestaltica e molte altre, trovando sfondi e figure comuni alla visione del fenomeno. La sua riflessione attraversa la definizione del fenomeno stesso, la cultura che lo circonda da più punti di vista e approfondisce alcuni concetti chiave come il dolore, la presenza e l’assenza, i passaggi generazionali, la dimensione dello sguardo, il valore rivoluzionario della fragilità, i meccanismi della vergogna, le opportunità e le trappole del pensiero e della libertà, la valenza del concetto di destino, fino ad arrivare ad una prospettiva terapeutica, ma anche filosofica e politica. Nella sua visione, il fenomeno e chi lo manifesta, sono solo sintomo e portatori di un disagio più ampio, sociale e istituzionale.
Il volo interrotto, titolo della bellissima canzone di Vladimir Vysotskij riportata al fondo del suo scritto, vuole collegare tra loro due situazioni interrotte e simili: quella dei giovani auto ritiratisi dall’arena esistenziale e quella dell’artista censurato. E a me, in qualche modo, entrambe ricordano il mito della caverna di Platone.
La prima mi fa venire in mente la caverna regressiva, scelta come male minore dai giovani dell’ikikomori: è più sicuro stare nella prigione di una realtà limitata e virtuale,rispetto all’affrontare la realtà esterna, percepita come non assimilabile per il grado di maturità raggiunto. Come dice Pietro nel testo: “è più forte la paura della rabbia”.
L’altra situazione parla comunque dell’interruzione di un progetto, quello di chi, uscito dalla caverna, ce l’ha fatta a superare i terribili scogli del fuori, è sopravvissuto ed è pronto a tornare di nuovo al suo interno per aiutare i compagni a liberarsi. Vladimir Vysotskij è un esempio di questo tipo.
Anche lui, come il suo analogo nel mito, ha pagato con lo scotto di essere boicottato e messo a tacere, il coraggio di aiutare gli altri a liberarsi. Il canto che non può essere cantato, della sua canzone. Ma che ancora oggi, per chi lo ascolta, ha la forza di una visione, è un richiamo alla necessità di una maturazione globale della società, cioè tutti noi, cosa di cui l’intero pianeta ha assolutissimo bisogno. E sulla quale i giovani, persi o meno nell’ikikomori, ci interrogano e che, se non avverrà, avrà un costo impossibile da pagare.

 

Premessa

La cultura definisce le forme del dolore. Il dolore definisce le forme della presenza.

A partire da queste premesse proviamo a osservare più da vicino il fenomeno emergente dell’autoreclusione giovanile, prestando particolare attenzione a quella specifica forma di disagio definita hikikomori, termine con cui viene designato tanto lo specifico fenomeno quanto le persone che lo incarnano[i].

Conduciamo questa osservazione tentando di intrecciare l’approccio gestaltico con quello etnopsichiatrico, approfittando del comune sfondo fenomenologico che permette di aprire e moltiplicare gli sguardi e i mondi. E molteplici saranno i rimandi e i richiami a voci diverse che nel corso degli anni hanno studiato, analizzato, criticato quegli aspetti della società (o sarebbe meglio declinarla al plurale, e parlare quindi di aspetti “delle” società…) che determinano il nostro modo di stare al mondo, di affrontare le crisi e di relazionarci agli altri. Per restituire la complessità che il fenomeno in questione porta con sé, tenteremo quindi di dare vita a un dialogo a più voci che attraversi e intrecci fenomeni, discipline e metodologie.

Definizione

La parola hikikomori è la forma sostantivata di due verbi: hiku (indietreggiare) e komoru (entrare all’interno, chiudersi). Il termine, utilizzato per la prima volta nel 1985 da Tomita Fujiya, è stato poi ripreso e diffuso da Tamaki Saito, psichiatra giapponese che nel 1998 ha pubblicato un libro intitolato “Shakaiteki Hikikomori: Owaranai Shishunki” (“Ritiro sociale, un adolescenza senza fine”), in cui descrive la condizione di giovani giapponesi tra i 14 e i 30 anni, per lo più maschi, che mettono in atto una volontaria reclusione sociale chiudendosi nella propria stanza per un periodo superiore ai 6 mesi, limitando al minimo i contatti con l’esterno, invertendo il ciclo sonno-veglia e utilizzando in molti casi internet quale principale canale di relazione con il mondo. Il Ministero dell’Educazione giapponese così definisce il fenomeno:

L’hikikomori è uno stato in cui un giovane passa la maggior parte del proprio tempo a casa; non può o non vuole avere una vita sociale, come andare a scuola o al lavoro; è in questa situazione da almeno 6 mesi; non ha vere amicizie; non soffre di patologie psicotiche o di ritardo mentale.

Carla Ricci, antropologa culturale e ricercatrice che da tempo si interessa al fenomeno, scrive che l’hikikomori è:

Una nuova forma di ribellione che non si realizza abbandonando la famiglia, ma al contrario chiudendosi in essa […] poiché coloro che la mettono in atto in realtà non la considerano un atteggiamento di rivolta, ma qualcosa che si fa poiché sembra l’unica cosa rimasta da fare e che non ci sia altro luogo per realizzarla se non in famiglia. [ii]

Ad oggi, in Giappone, sono stati accertati oltre 500.000 mila casi di hikikomori, ma alcuni ricercatori ritengano che i casi reali possano essere circa un milione, il che corrisponderebbe all’1% della popolazione totale.

In Italia i primi casi di hikikomori sono stati formalmente registrati attorno al 2008. Non vi sono ancora dati certi ma, secondo l’Associazione Hikikomori-Italia[iii] che da anni si occupa di questo fenomeno, si stima che ce ne possano essere almeno 100.000.

Presenza

Torniamo all’inizio.

La cultura definisce le forme del dolore. Il dolore definisce le forme della presenza.

Procediamo al contrario.

Se l’hikikomori è un fenomeno emergente ed è una delle forme che oggi assume la sofferenza dei giovani – non più solo in Giappone – quali sono le caratteristiche dello sfondo culturale (e quindi sociale, geopolitico, storico) che lo sostengono, che gli permettono di emergere e di strutturarsi? Chi sono questi giovani che trovano quale unica forma di reazione al dolore del mondo questa fuga claustrofobica nell’intestino familiare? Quali rimedi possono essere messi in campo per “curare” una ferita che trasforma una presenza in un’assenza?

Forse è proprio a partire dal concetto di “presenza” che possiamo iniziare il nostro percorso di analisi polifonica. Evocando uno dei padri ispiratori dell’etnopsichiatria italiana, può essere utile fare riferimento al concetto di “presenza” così come viene declinato da Ernesto De Martino.

Cesare Cases nell’introduzione a “Il mondo magico”, così qualifica la nozione di presenza demartiniana:

Memoria retrospettiva dei comportamenti culturalmente efficaci e volontà prospettica di impiegar qui e ora, in rapporto alla richiesta della realtà, il comportamento adatto. La presenza si inserisce proprio nel punto in cui, sotto la spinta della situazione, le memorie necessarie sono evocate e mobilitate per determinare l’atto creativo della nuova storia, il cammino verso il futuro. […] In questa dialettica fra memoria retrospettiva e slancio prospettico si inserisce la presenza[iv].

L’emergere in questo breve brano di parole-chiave quali “contatto”, “qui e ora”, “atto creativo” possono, peraltro, essere un buon punto di partenza per una riflessione più articolata sulle connessioni tra il pensiero di De Martino e la terapia della Gestalt.

Per quanto riguarda, nello specifico, l’utilità dello sguardo demartiniano rispetto al lavoro con i fenomeni di autoreclusione e di ritiro sociale, il concetto di “presenza” va accompagnato a quello di “apocalisse culturale” e alla constatazione della specifica crisi che attraversa la nostra società, creando un terreno particolarmente favorevole all’emergere di queste specifiche forme di sofferenza. Così Stefania Consigliere, filosofa e antropologa, descrive lo “sfondo” di questa possibile emergenza:

La crisi che ha attraversato tutto il Novecento e che oggi si ripresenta è l’impossibilità del fondamento. Non già questo o quel principio, sostituibile con un altro: a venir meno è stata la possibilità stessa di una fondazione così come noi la vogliamo: certa, unica, buona. Assoluta.

Essa si manifesta come consapevolezza – oscura o adamantina, generalizzata o acuta – che gli assunti alla base della nostra forma di vita non tengono più, o non quanto vorremmo: che nulla è più come non è mai stato; e come estremo tentativo di incatenarci a quel che resta, o di distrarci dal problema. Così enunciata, la crisi della modernità sembra astruseria da filosofi. Ma è nel più trito quotidiano, e direttamente sulla nostra pelle, che ne viviamo le conseguenze: dalla diffusione dei supplementi psicoattivi al dominio dell’impianto spettacolare, dall’incapacità di immaginare altri modi di vita all’espandersi del controllo tecnico. Altre manifestazioni, e delle più terribili, hanno sperimentato le tre o quattro generazioni che ci precedono.

Nei termini di Ernesto De Martino si tratta di una generalizzata e duratura crisi della presenza: la difficoltà nell’abitare il proprio tempo e le proprie relazioni, il venir meno dei punti di riferimento che ordinano il mondo e il fluttuare dei soggetti in uno spazio di indifferenziazione. In situazioni di stabilità, la crisi della presenza caratterizza alcuni passaggi esistenziali individuali (un lutto, un cambio di status, una malattia), in cui rischio e opportunità arrivano insieme, ed è la tenuta del collettivo a deciderne l’esito: il passaggio critico e il pericolo che esso comporta per il soggetto può risolversi per il meglio, con la stabilizzazione di un nuovo modo della presenza, oppure prendere una china nefasta. Quando la crisi è generalizzata si presenta, per una società intera, la minaccia di apocalisse culturale, ovvero il «rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile» [De Martino, 1977, p.15]. In questi casi le strategie di soluzione possono essere delle più estreme (la reazione conservatrice o, all’altro capo, una rivoluzione; o ancora l’abbandono degli istituti culturali e la deriva) e massimamente temibili gli effetti della catastrofe. Diverse volte, nell’arco del secolo scorso, questa catastrofe ha colpito. Era ed è un mondo intero, il nostro, a trovarsi di fronte al pericolo dell’apocalisse[v].

Il diffondersi del ritiro sociale come segnale di una crisi che non coinvolge singoli individui, ma l’intera società. L’hikikomori come sintomo, e non come “malattia”. La malattia è altrove. Il paziente non è l’adolescente, ma la società che lo mette in forma e non è in grado di sostenerlo nei passaggi cruciali.

Se la crisi della presenza, come scrive Stefania Consigliere, è la difficoltà nell’abitare il proprio tempo e le proprie relazioni, in determinate condizioni la fuga nell’assenza (sociale) è l’unica soluzione possibile.

Cultura

Tamaki Saito, nel suo libro “Cultural Theory of Hikikomori” (2003), sottolinea come l’hikikomori sia un problema socialmente prodotto, le cui origini andrebbero ricercate in un malfunzionamento del sistema comunicativo tra società, famiglia, scuola e individuo. Questa specifica forma di dolore è il frutto dell’interazione di diversi fattori. Karin Bagnato sostiene che l’hikikomori:

Può essere considerato a tutti gli effetti una manifestazione multidimensionale di malessere giovanile derivante dall’interazione di molteplici variabili contestuali e individuali. Relativamente ai fattori contestuali, società, famiglia e scuola sembrano avere un ruolo chiave poiché rappresentano i principali contesti in cui nasce e si consolida la maggior parte delle condotte adattive e disadattive[vi].

La letteratura che tenta di analizzare questo fenomeno è alla ricerca degli elementi ricorrenti che accompagnano – e forse preparano – questa specifica “strategia dell’assenza”, nonché degli spazi sociali che ne favoriscono l’emergere. Società, famiglia, scuola. Ma tanto la società, quanto la famiglia e la scuola sono in realtà espressioni di specifiche culture. Di specifici processi. E di specifiche politiche… Le politiche di costruzione dell’umano.

In antropologia – e in etnopsichiatria – lo studio dei processi di “fabbricazione” dell’umano è un tema centrale, che si organizza attorno al concetto di antropopoiesi.

Il termine antropopoiesi indica i vari processi di auto-costruzione dell’individuo sociale, in particolare dal punto di vista della modificazione del corpo socializzato, nonché i vari processi di costruzione del patrimonio culturale di ogni gruppo umano. Scrive Piero Coppo in “Le ragioni del dolore”:

Nel processo di antropopoiesi proprio alle società ricche, l’Io è infatti privato delle sue connessioni e dei riferimenti che per tanta parte della storia umana lo avevano sostenuto. Consegnato in questo modo solo a se stesso, diviene dipendente, nel ciclo di valorizzazione/svalorizzazione, dai nessi che riesce di volta in volta a stabilire con oggetti e situazioni sempre più precari: un ruolo lavorativo, una relazione gratificante, uno status sociale, uno status symbol, un’appartenenza valorizzante. Dipende quindi da investimenti revocabili e caduchi, lo scheletro dell’Io finisce per essere costituito dalle sue stesse protesi, sulle quali però non può fare affidamento oltre il bagliore che accompagna la loro acquisizione. In questo senso, l’oggetto non proietta più soltanto, freudianamente, la sua ombra sull’Io ma finisce per costituirlo.

L’Io è dunque gettato in un mondo governato dalla necessità di una accentuata impermanenza, ma nel quale l’ideale di salute condiviso e proclamato è quello della conservazione e dell’accumulazione, non del deperimento. Da un lato se ne predica l’autonomia, dall’altro se ne promuove la dipendenza; ne risulta una dinamica contraddittoria, spesso inconsapevole e sempre patogena, che spinge a una specie di coazione all’incorporazione ansiosa di oggetti evanescenti per bilanciare la debolezza di fondo che rende ciascuno estremamente sensibile a ogni frustrazione che incrini l’immagine del proprio valore e della propria autonomia. Reso così tremendamente fragile, l’Io è esposto, indifeso, agli effetti devastanti di ogni perdita o valorizzazione.

[…] Le condizioni di vita in Occidente generano così vissuti sempre più diffusi di soggezione a forme organizzative e produttive tendenzialmente anonime, accompagnati dalla consapevolezza della propria impotenza a controllarle o modificarle sostanzialmente. Si tratta di quelle esperienze della vita associata che, come sottolineava De Martino, riproducono il modello naturale della forza spietata che schiaccia. Questo ambiente domesticante e potente, che insegna fermamente e progressivamente che non c’è alternativa né ribellione possibile, facilita certamente esperienze di ripiegamento, resa e non-vissuto. Come abbiamo visto, anche da esse si generano le sofferenze che, in contesti psichiatrizzati o psicologizzati, possono assumere le forme di disturbi depressivi. Si tratta però di forme dai limiti sfumati: al di là delle incerte linee di confine, comportamenti suicidari, tossico manici, disturbi alimentari, attacchi di panico, fobie sociali, fatica cronica, bouffées deliranti, manifestazioni isteriche o altro, testimoniano di analoghi vissuti e storie, sia pur con diversi destini[vii].

Nell’Hikikomori la dinamica contradittoria tra spinte all’autonomia (dalla famiglia, dalla comunità, dai pari) e promozione della dipendenza (dal mercato, dal prodotto, dalla performance), evidenziata da Piero Coppo, sembra subire un inversione di segno. Il sovrapporsi di una famiglia fortemente protettiva e di episodi di competizione sociale fallimentari sembrano favorire una traiettoria di fuga/ripiegamento quale unica possibilità di sopravvivere allo sgretolamento dell’Io.

Società

In questi anni, Massimo Recalcati ha scritto molto su come i cambiamenti legati alla ipermodernità stiano trasformando i ruoli sociali, le costruzioni identitarie e le pratiche terapeutiche. A proposito di efficienza e di prestazione, in “Cosa resta del padre?” scrive:

Il contesto sociale dove si diffondono le forme solide dell’identificazione è caratterizzato da una egemonia dell’adeguamento conformistico ai sembianti sociali e al loro potere di installazione di pseudo identità narcisisticamente fragili.

[…] il carattere normativo assunto dal principio di realtà agisce come un imperativo superegoico che esige l’annullamento del desiderio anziché alimentarne la dialettica. L’esigenza di raggiungere una capacità prestazionale efficiente, la richiesta superegoica di adattarsi inflessibilmente all’istanza normativa del principio di realtà trasfigurato nel principio di prestazione finiscono per surclassare ogni desiderio soggettivo. Al posto del conflitto freudiano tra principio di piacere e principio di realtà s’impone a senso unico il culto sociale della prestazione che incalza la soggettività come un inedito dover essere[viii].

Non è un caso che il processo di “ripiegamento” degli Hikikomori sorga sovente in seguito a episodi di fallimento sociale, riconducibili per lo più a difficoltà scolastiche e ad atti di bullismo e umiliazione.

In ambito gestaltico Gianni Francesetti, nel volume da lui curato dedicato agli attacchi di panico, introduce i termini di Polis e Oiko per analizzare i processi dialettici tra famiglia e società e le ricadute sui soggetti che devono attraversarne i confini:

Il passaggio dall’oikos (luogo dei pochi, della casa, dell’amicizia intima) alla polis (luogo dei molti, della città, dell’apertura al mondo) sembra centrale nell’insorgenza del disturbo di panico. Questo passaggio cruciale comporta infatti la profonda ristrutturazione delle proprie appartenenze, dei propri sfondi sicuri, ed espone il soggetto alla solitudine e alla propria vulnerabilità.

[…] Le appartenenze sono parte significativa del ground che sostiene l’organismo e che costituisce lo sfondo di sicurezza estrema (Perls et al., 1971, p.464), il terreno in cui esso si radica e il periodo di uscita dalla famiglia d’origine è una fase del ciclo vitale in cui questo sfondo deve essere destrutturato e profondamente rimodellato. La sua instabilità espone l’organismo alla possibilità di crolli improvvisi e transitori dello sfondo e quindi all’esperienza dell’attacco di panico. Il soggetto che soffre di attacchi di panico è sospeso fra appartenenze passate che non sostengono più e appartenenze future che non sostengono ancora.

La difficoltà di trovare sostegno nella polis nella condizione postmoderna si intreccia e si esplicita, quindi, soprattutto in quelle fasi del ciclo vitale personale nelle quali si è impegnati ad abbandonare le appartenenze consolidate e cresce l’autonomia.

È probabile che l’attacco di panico insorga proprio quando l’autonomia del soggetto cresce più di quanto cresca il sostegno dato dalle appartenenze o, potremmo anche dire, quando il distacco dall’oikos non trova adeguato sostegno nella polis[ix].

Sempre nel libro curato da Gianni Francesetti, Giovanni Salonia nel capitolo intitolato “Cambiamenti sociali e disagi psichici. Gli attacchi di panico nella postmodernità” scrive:

Nel periodo in cui la società enfatizza la soggettività a scapito dell’appartenenza (società narcisistica), le patologie riguarderanno sia il narcisismo (la soggettività che non riesce ad affidarsi all’alterità), sia lo smarrimento dell’identità (la soggettività che da sola non riesce a trovare se stessa dentro una molteplicità di opportunità). Anche le modalità patologiche borderline trovano il loro humus in un contesto sociale frantumato in cui si mescolano, senza linee di chiarezza e di demarcazione, confusione e imbroglio. Essere socializzati in un ambiente nel quale si ricevono messaggi contraddittori diventa uno sfondo vulnerabile e disponibile alla confusione delle identità[x].

Michela Gecele e Gianni Francesetti aggiungono, nel capitolo intitolato “La polis come ground e orizzonte della terapia”:

Il percorso è quello da una società verticistica, fondata sul riconoscimento dell’autorità, alla fase della ribellione, fino ad arrivare all’individualismo e alla soggettività della società narcisistica (alla ‘morte dei padri’) e infine alla frammentazione della società borderline. Nel percorso di opposizione a regole esterne (prima in gruppi dalla definita appartenenza, e poi da soli, negando queste stesse appartenenze) l’individuo è diventato sempre più solo, senza forza[xi].

Nei passaggi tratti dal libro di Gianni Francesetti potremmo sostituire il termine “attacchi di panico” con “hikikomori” e il senso rimarrebbe intatto. L’attacco di panico è infatti una sintomatologia frequente negli Hikikomori, soprattutto nei momenti in cui tentano di reagire al proprio dolore e provano a oltrepassare la “soglia di sicurezza” che li separa dal mondo – il perimetro della propria stanza – per incontrare nuovamente l’altro. L’attacco di panico solitamente insorge nei tentativi (spesso fallimentari) di rientro scolastico, o di visita medica e/o psicologica, o di riunione con gli amici. Nell’ambito del fenomeno hikikomori gli attacchi di panico rientrano quindi nella categoria degli attacchi “causati dalla situazione (provocati)” e non danno origine a un vero e proprio disturbo da panico.

Passaggi

Il rischio di attacco di panico aumenta in quelle fasi del ciclo vitale personale in cui si è impegnati ad abbandonare le appartenenze consolidate e cresce l’autonomia, ovvero nei cosiddetti “momenti di passaggio”.

Scrive a questo proposito Marco Aime:

Perché è così importante evidenziare le differenze tra giovani e adulti? Perché l’adolescenza, che è lo stato di transizione tra la condizione di bambino e quella di adulto, una sorta di migrazione interna dalla dimensione tranquilla e protetta dell’infanzia, totalmente dipendente dalla famiglia, verso una situazione di autonomia decisionale ed economica, nella quale si aprono nuovi e più impegnativi orizzonti, è una fase molto difficile e delicata, in cui l’individuo inizia a costruire la “sua” identità personale.

[…] Proprio perché si tratta di un momento di costruzione dell’identità, e qualunque identità si fonda e si erige sulla differenza, è quanto mai necessario che la comunità da un lato stabilisca in modo chiaro il confine tra il mondo dei giovani e quello degli adulti, e dall’altro ne “protegga” il passaggio, collocando segnali, punti di riferimento ben visibili. Le differenze devono essere ben chiare per entrambe le parti: bisogna porre limiti evidenti, netti, distinguere ciò che è lecito e giusto fare in una condizione e ciò che lo è in un’altra, portare gli individui ad assumersi determinate responsabilità e allo stesso tempo riconoscere loro alcuni diritti[xii].

Quali sono, oggi, questi segnali, questi punti di riferimento capaci di “proteggere” i giovani in questi passaggi fondamentali?

Lo stesso Aime sottolinea come questo passaggio sia cambiato nel tempo, per lo meno nella società occidentale:

Il rito presuppone un tempo e uno spazio distinti, dati sempre più difficilmente reperibili da noi, poiché si è verificata una disgiunzione dei luoghi in cui avvengono i passaggi: ambito religioso, scolastico, professionale, sportivo, civile. Inoltre, come sottolinea Martine Segalen, una tra le ragioni della scomparsa di questi rituali dipende dal fatto che all’età adulta non si accede più come un tempo, a una scadenza fissa. Il passaggio si prolunga indefinitamente, senza che si possa stabilire con chiarezza un “prima” e un “dopo”, perché i diritti alla sessualità, all’indipendenza economica e a quella abitativa – in generale allo status di adulto – non si acquisiscono più nello stesso momento.

[…] Questa attesa prolungata e la conseguente convivenza con i genitori creano una situazione di ambiguità e un allontanamento del momento in cui si può assumere una prospettiva adulta. Non più una conradiana “linea d’ombra” da attraversare, ma una sorta di terra di mezzo, di cui non si conosce l’ampiezza, né il tempo che occorre per uscirne. Viene meno anche la spinta alla progettualità, che caratterizza l’ingresso nell’età adulta[xiii].

Le parole di Aime sembrano riprendere quanto sostenuto da Tamako Saito in un intervista del 2008, in cui sottolinea alcune caratteristiche della società giapponese (e coreana) evidenziando le differenze con la società americana e europea. Interessante notare come, nelle parole che eseguono, viene istintivamente da associare la specifica cultura familiare italiana alle realtà asiatiche più che a quelle occidentali:

Oggi i paesi colpiti da questo fenomeno sono il Giappone e la Corea, che sono aree di cultura confuciana, le cui società hanno assimilato il Confucianesimo e in particolare il concetto di pietà filiale. Sono culture in cui la pietà filiale è un valore molto enfatizzato. I genitori accudiscono i figli per essere da questi accuditi in vecchiaia, nel rispetto dell’alternanza dei ruoli. In America e in Inghilterra, una volta diventati adulti, i figli lasciano la casa paterna; in Giappone invece rimanere in casa è normale. Qui li chiamiamo parasite singles, mentre in Italia si chiamano mammoni!

Ecco, se pensiamo che una parte di questi parasite singles è destinata a diventare Hikikomori il fenomeno è più facile da capire.

Penso sia giusto considerare l’hikikomori una patologia sociale. Tuttavia, data la differenza tra le culture, in America e in Europa penso che siano pochi e che non aumentino in modo considerevole. Il motivo è che i genitori americani ed europei mandano via di casa il figlio adulto e quindi il figlio non può diventare Hikikomori. In Giappone restano in casa anche a trenta, quarant’anni e i genitori continuano a provvedere a loro[xiv].

Nel viaggio esistenziale di un giovane Hikikomori, l’attraversamento di questa terra di mezzo è destinata al fallimento. Viene meno la spinta alla progettualità. Viene meno il processo di individuazione. Viene meno l’appartenenza al gruppo. Viene meno l’iscrizione alla storia condivisa.

Ne parla in maniera articolata De Martino, trattando a suo modo dell’importanza di uno “sfondo” sicuro che permetta al soggetto di emergere quale figura definita:

Nei vissuti di mutamento radicale, sia che l’accento batta sul mondo che si perde (derealizzazione) sia che invece batta sulla perdita della persona (depersonalizzazione in senso stretto), ciò che sta alla base è il mutamento di segno della presentificazione intenzionata, cioè la caduta dell’ethos del trascendimento valorizzante su tutto il fronte del valorizzabile. La presentificazione si compie sempre entro uno sfondo di ovvietà non attualmente problematizzata, uno sfondo che costituisce la patria dell’agire, ed in cui l’atto presentificante si viene sempre di nuovo raccogliendo, con varia intensità, al vertice di singole presentificazioni egemoniche, al doverci essere qui ed ora in un progetto operativo qualificato, in una iniziativa culturalmente integrata. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che la ‘ovvietà’ dello sfondo operativo, la non problematizzata patria dell’agire, è la testimonianza fondamentale dell’ethos del trascendimento, che s’inaugura sempre di nuovo con un grande atto di umiltà, cioè affidandosi alla ovvietà di una patria che racchiude una infinita storia di atti di domesticazione umana, di progetti comunitari impliciti, sedimentati attraverso le generazioni e la tradizione, e che dal più remoto passato umano giungano sino a noi, qui ed ora, attraverso la mai intermessa pedagogia della vita in società, della famiglia in cui siamo stati cresciuti ed educati, dei maestri che ci siamo scelti. Proprio per questo immenso affidamento all’altrui operare si costituisce lo ‘sfondo’, l’orizzonte, la patria, il suolo, la radice che rende possibile il raccogliersi presentificante in un’iniziativa qualificata, nel contributo nostro, qui ed ora, alla progettante storia comunitaria dell’uomo: e la primordiale testimonianza a favore del dover presentificarsi, sta in questo grande atto di confidenza per cui non siamo mai soli, in quanto ci lasciamo umilmente sostenere da un operare di tutti i viventi lontani e prossimi, presenti e passati, potenzialmente rammemorabili o divenuti per noi anonimi o stati anonimi da sempre perché l’unica traccia di loro è in ciò che conta, nell’opera di domesticazione del mondo, nella ‘cara memoria’ dell’opera domesticatrice che ci consente di emergere in una “patria dell’agire”[xv].

Destino dell’uomo è mettere ordine nel caos del mondo, definire orizzonti di senso, tracciare linee di demarcazione. Tanto nel corso delle diverse fasi di sviluppo del singolo individuo quanto nel processo evolutivo (o involutivo…) della specie. Quello che De Martino definisce “opera di domesticazione del mondo” ci coinvolge tutti ed è la premessa necessaria a “l’agire nel mondo”, ovvero assumersi la responsabilità di incarnare il proprio destino. Ma è un’operazione che non possiamo fare da soli.

Come scriveva in precedenza Stefania Consigliere, sempre a proposito di De Martino e del concetto di presenza, “la crisi della presenza caratterizza alcuni passaggi esistenziali individuali (un lutto, un cambio di status, una malattia), in cui rischio e opportunità arrivano insieme, ed è la tenuta del collettivo a deciderne l’esito.”[xvi]

Sguardi

Oggi la tenuta del collettivo è destinata al fallimento, laddove i soggetti non rispondono a determinati requisiti standardizzati. E se questi soggetti “fragili” non hanno strumenti o risorse per far fronte a questo fallimento, diventano scarti del sistema. È importante, a questo punto, sottolineare come questo fallimento non venga fatto proprio dal collettivo, dalla comunità, dalla società, ma venga scaricato sul singolo, colpevolizzandolo. Il giovane “fallito” sparisce e si sottrae allo sguardo degli “altri”. Nessuno può violare le mura della sua stanza, senza il suo permesso (concesso con estrema parsimonia). Rimane la parola. Affidata sovente ai social, a mezzi “sicuri” di cui si può avere il pieno controllo. Perché il bisogno di socialità rimane. Non siamo in un campo depressivo, in cui l’altro è irraggiungibile. L’altro è necessario, ma ad alcune condizioni. Non deve far male. Non deve alimentare conflittualità. Non deve giudicare.

La parola, quindi, arriva laddove lo sguardo non può arrivare. Non per incapacità, ma per impossibilità, perché lo sguardo è più “radicale”. A questo proposito, possono essere utili le parole (e lo sguardo) di John Berger, non psicologo o psicoterapeuta ma critico d’arte e scrittore:

Il vedere viene prima delle parole. Il bambino guarda e riconosce prima di essere in grado di parlare.

Il vedere, tuttavia, viene prima delle parole anche in un altro senso. È il vedere che determina il nostro posto all’interno del mondo che ci circonda: quel mondo può essere spiegato a parole, ma le parole non possono annullare il fatto che ne siamo circondati. Il rapporto tra ciò che vediamo e ciò che sappiamo non è mai definito una volta per tutte. Ogni sera vediamo tramontare il Sole. Sappiamo che la Terra se ne allontana ruotando su se stessa. Eppure saperlo, saperselo spiegare, è sempre leggermente inadeguato rispetto a ciò che vediamo.

[…] Vediamo solamente ciò che guardiamo. Guardare è un atto di scelta. Il risultato di tale atto è che quanto vediamo si pone alla nostra portata. Anche se non necessariamente a portata della nostra mano. Toccare è mettersi in relazione con quanto si tocca. (Chiudete gli occhi, muovetevi per la stanza e noterete come la facoltà di toccare non sia che una sorta di visione statica e limitata). Noi non guardiamo mai una cosa soltanto; ciò che guardiamo è, sempre, il rapporto che esiste tra noi e le cose. La nostra visione è costantemente attiva e costantemente mobile. E, costantemente, costringe le cose a girarle attorno, costituendo ciò che ci circonda nella nostra individualità.

Poco dopo aver imparato a vedere, ci accorgiamo che possiamo essere a nostra volta visti. L’occhio altrui si combina con il nostro per rendere pienamente credibile il nostro essere parte del mondo visibile.

Quando diciamo che riusciamo a vedere quella collina là in fondo, non facciamo che affermare che da quella collina è possibile vedere noi. Più radicalmente del dialogo verbale, per sua natura la vista si basa sulla reciprocità. E spesso il dialogo non è che il tentativo di dare voce a tale reciprocità: il tentativo di spiegare come, metaforicamente o letteralmente, “io vedo le cose” e il tentativo di scoprire come “le vedi tu”.[xvii]

Il giovane Hikikomori, quando esce di casa indossa spesso una felpa con il cappuccio calato sulla testa. Veste indumenti larghi e sformati. Sovente neri e anonimi. Gira con il capo chino ed evita lo sguardo altrui. Evita per quanto possibile il terreno pericoloso della reciprocità – e quindi del giudizio – che lo sguardo convoca. Teme che se qualcuno incrociasse il suo sguardo potrebbe indovinarne la fragilità. Il potere del malocchio. Perché il giovane Hikikomori ha imparato che il mondo è un posto pericoloso e non ha strumenti sufficienti per far fronte al fallimento. Perché le intenzioni non sono mai neutre e, in un mondo in cui la competizione e il successo sono la cifra della riuscita sociale e individuale, non puoi fidarti di nessuno.

A differenza di quanto molti sostengono, l’Hikikomori ha sperimentato che dal fallimento non si impara nulla. Il fallimento porta dolore, svalutazione, vergogna. E allora decide di vivere “a porte chiuse” perché, come scriveva Jean-Paul Sartre, l’inferno sono gli altri. E a proposito di sguardi, Sarte scrive:

Prima di tutto, lo sguardo altrui, come condizione necessaria della mia obiettività, è distruzione di ogni obiettività per me. Lo sguardo altrui mi raggiunge attraverso il mondo e non è solamente trasformazione di me stesso, ma metamorfosi totale del mondo. Io sono guardato in un mondo guardato. In particolare, lo sguardo d’altri – che è sguardo-che-guarda e non sguardo-guardato – nega le mie distanze dagli oggetti e dispiega le sue distanze. […] Per mezzo dello sguardo d’altri faccio l’esperienza concreta che c’è un al-di-là del mondo.[xviii]

In “Hikikomori e adolescenza. Fenomenologia dell’autoreclusione”, volume antologico curato da Giula Sagliocco, la stessa Sagliocco riprende il tema dello sguardo e scrive che:

Quando ci sottraiamo allo sguardo degli altri ci priviamo di ciò che gli altri vedono in noi o immaginiamo vedano, dello specchio che ci restituisce il nostro essere vitale.

Se il bisogno di “essere visto” diventa una condizione indispensabile per poter-essere, accade che, al contrario, il giovane in hikikomori si porta ai limiti della “sparizione” agli occhi degli altri, ma proprio per questo il suo silenzio viene udito e la sua assenza notata. Nell’intimità della propria stanza, a sua volta protetta dal mondo dal resto dell’abitazione, il giovane autorecluso cerca di dare un senso e un valore all’esistenza propria e altrui attraverso l’esercizio di un rito purtroppo soffocante per se stesso e per i suoi familiari, ma a lui necessario e inevitabile.

Il giovane Hikikomori, nel privarsi di una parte fondamentale di se stesso, che è quella dello sguardo degli altri, si auto-mutila. Un sacrificio, quello dell’autoreclusione, attraverso il quale il ragazzo si sforza di salvare un qualcosa che i ricercatori nel campo delle scienze umane sono nel continuo tentativo di comprendere: “l’individuo accetta di separarsi da una parte di sé (la propria visibilità) per salvare la totalità della propria esistenza.” (D. Le Breton, 2005, p.9).[xix]

Il cammino del giovane Hikikomori è continuamente minacciato dallo sguardo, e quindi dall’intenzione, dell’altro. Il mondo è un campo minato. È un naufrago volontario e la sua stanza è la piccola isola circondata da squali su cui si è messo in salvo. I suoi messaggi in bottiglia vengono affidati alla corrente di internet. La sua esistenza è appesa a un filo. O, meglio, a un cavo. Preferibilmente ad alta velocità.

All’interno del suo mondo, tra le mura della sua stanza, sull’isola deserta, l’Hikikomori è padrone assoluto del proprio destino. È il sovrano incontrastato del proprio universo. Chi oltrepassa la soglia della stanza, deve rispettare le sue leggi. Non sovrano illuminato, ma piccolo dittatore. Deve avere il controllo. Su tutto. Al primo contrattempo, la porta viene chiusa a chiave e il cavo scollegato. Basta un click per allontanare il dolore, per evitare il conflitto. E basta un black-out per trasformare la fortezza in un fragile castello di carte. La fragilità viene negata, nascosta, travestita. Ma riemerge al primo colpo di vento.

Fragilità

La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi.[xx]

Borgna esplora il tema della fragilità, sovrapponendo a una lettura semplicistica che ne sottolinea i pericoli e lo stigma una riflessione che al contrario ne valorizza le potenzialità e la forza creativa, in quanto caratteristica imprescindibile della nostra umanità:

La fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture portanti, una delle strutture ontologiche, e delle forme di umana fragilità non può non occuparsi la psichiatria: immersa nelle sue proprie fragilità e nelle fragilità dei suoi pazienti, divorata dal rischio e dalla tentazione di non considerare la fragilità come umana esperienza dotata di senso ma come espressione più, o meno, dissonante di malattia, di una malattia che non può essere se non curata.

Come definire la fragilità nella sua radice fenomenologica? Fragile è una cosa (una situazione) che facilmente si rompe, e fragile è un equilibrio psichico (un equilibrio emozionale) che facilmente si frantuma, ma fragile è anche una cosa che non può essere se non fragile: questo essendo il suo destino. La linea della fragilità è una linea oscillante e zigzagante che lambisce e unisce aree tematiche diverse: talora, almeno apparentemente, le une lontane dalle altre.

Come non riconoscere (così) nell’area semantica e simbolica, espressiva ed esistenziale, della fragilità gli elementi costitutivi della condizione umana?

[…] la fragilità è il nostro destino, certo, ma essa nasce, si svolge e si articola in una stretta correlazione con l’ambiente in cui viviamo, e cioè con gli altri da noi. La coscienza della nostra fragilità, della nostra debolezza e della nostra vulnerabilità (sono definizioni, in fondo, interscambiabili) rende difficili e talora impossibili le relazioni umane: siamo condizionati dal timore di non essere accettati, e di non essere riconosciuti nelle nostre insicurezze e nel nostro bisogno di ascolto, e di aiuto. La nostra fragilità è radicalmente ferita dalle relazioni che non siano gentili e umane, ma fredde e glaciali, o anche solo indifferenti e noncuranti. Non siamo monadi chiuse, e assediate, ma siamo invece, vorremmo disperatamente essere, monadi aperte alle parole e ai gesti di accoglienza degli altri; e, quando questo non avviene, le dinamiche relazionali si fanno oscure e arrischiate: dilatando fatalmente le nostre fragilità e le nostre ferite, le nostre insicurezze e le nostre debolezze, le nostre vulnerabilità.[xxi]

E così il giovane Hikikomori, condizionato dalla lettura sociale della fragilità, non riesce ad aprirsi al mondo e si ritrova, malgrado tutto, monade assediata. Ferita. Debole. Vulnerabile.

Non è un caso se molti giovani Hikikomori vengono descritti dai genitori come persone particolarmente sensibili e di spiccata intelligenza. In altre epoche, in altri luoghi, i loro destini avrebbero probabilmente avuto altre traiettorie.

Nel nostro mondo, invece, la fragilità è negata e alimenta la vergogna. Altro tema ricorrente, nella fenomenologia dell’hikikomori.

Vergogna

In ambito gestaltico, Jean-Marie Robine ha dedicato particolare attenzione al tema della vergogna. Riportiamo alcuni estratti da “Il rivelarsi del Sé nel contatto”, che possono essere utili nella lettura dei vissuti di un Hikikomori:

Nella situazione di vergogna, il soggetto non è ciò che dovrebbe essere e, se si ha minaccia di punizione, o perlomeno se si ha proiezione di una minaccia di punizione, è quella di una privazione emozionale tale da mettere in squilibrio l’integrità del soggetto. “La vergogna è provocata da una ferita nei riguardi non già dell’oggetto, ma di una norma mentale. Questo è fonte di un’angoscia ancora più profonda di quanto non sia quella della punizione: l’angoscia di essere esclusi dalla comunità degli uomini. La vergogna è l’angoscia della solitudine totale, dell’annientamento non fisico, ma psichico” scrive Hultberg. […] Con la vergogna nasce in me la certezza dell’altro al quale sono o potrei essere esposto. La vergogna fa seguito a un momento di esposizione, di allargamento dei confini di esposizione, per riprendere un concetto di E. e M. Polster, momento in cui il soggetto è potuto apparire in modo particolarmente sensibile, intimo o vulnerabile.

[…] Quando ho bisogno di introiettare (anche nel modello alimentare), mi oriento nel campo, individuo ciò che potrebbe soddisfare la pulsione e allontano il resto. Il materiale “offerto” all’introiezione è già nel campo: tocca a me percepirlo e selezionarlo. Se mi considero dunque come “non introiettabile”, che non deve essere introiettato, la manipolazione più semplice è la seguente: mi ritiro dal campo dell’altro, mi nascondo sparisco. Chi ha vissuto il sentimento di vergogna spesso esprime il desiderio di sparire, di nascondersi in un fosso, di sprofondare sotto terra. Sparire dal campo dell’altro, restringere il proprio campo di esperienza. Cancellarsi. Non potendo costringere il mondo a non guardarlo, non potendo distruggere gli occhi del mondo, chi prova vergogna vorrebbe essere invisibile.

Mi sembra che nella retroflessione della manipolazione, nell’annullamento del sé legato alla vergogna si possa trovare una epigenesi dell’annullamento del sé che si incontra nelle personalità affette da disturbi del narcisismo: cronicizzazione dell’annullamento del sé, ritiro dell’affetto, cancellazione di alcune funzioni dell’io a vantaggio di una confluenza generalizzata nello sfondo e costruzione di quello che Winnicott chiama un “falso self” da ostentare e capace di colmare le proiezioni o attese dell’altro.[xxii]

Nel fenomeno hikikomori, però, la costruzione di questo falso sé sembra destinata al fallimento, o forse è proprio il falso sé a crollare sotto i colpi impietosi della vergogna, e ciò che rimane è un Io troppo fragile per reggere allo sguardo dell’altro. L’imperatore è nudo! Ma l’imperatore in realtà è un fanciullo indifeso, incapace di affrontare i pericoli presenti fuori dalle mura del castello. E il bambino che lo addita, lo sbeffeggia e lo indica alla folla è il vero tiranno, il persecutore, il nemico. In questa ridistribuzione dei ruoli, chi rappresenta allora il sarto, che confeziona i falsi vestiti e manda il fanciullo/imperatore indifeso a sfilare tra la folla…?

La vergogna e il suo ruolo sociale non sono però oggetti immutabili. Mutano nello spazio e nel tempo. Sono a loro volta costrutti culturali. A proposito di hikikomori, della società giapponese e delle sue trasformazioni, in “Anatomia della dipendenza. Un interpretazione del comportamento sociale dei giapponesi” (citato da Giulia Sagliocco nel volume da lei curato) Takeo Doi, psichiatra giapponese, sostiene che:

Mentre nella società giapponese tradizionale il senso di vergogna rivestiva una grande importanza e una manifestazione di vergogna era compresa e persino approvata, […] oggi, sotto l’influenza occidentale, […] il senso di vergogna è diventato se non un’autentica menomazione, quanto meno un elemento nocivo alla persona che lo prova. È probabile che colui che prova vergogna, avvertendo che l’interlocutore non è disposto ad accogliere con comprensione tale stato d’animo, indirizzi la vergogna contro se stesso e viva uno stato di tensione.[xxiii]

Tale vergogna, in alcuni casi, viene proiettata dal giovane Hikikomori sui genitori, colpevoli di non averlo saputo proteggere dalle insidie del mondo esterno. In maniera a volte inconsapevole, il figlio accusa i propri genitori di non aver visto i segnali di disagio e sofferenza che lui ha lanciato. La vergogna, in un circolo vizioso senza uscita, gli ha impedito di chiedere aiuto, quantomeno ad “alta voce”. E loro non hanno sentito il suo sussurro. La famiglia, unico luogo sicuro, al momento del bisogno ha tradito. Per questo sovente il perimetro di sicurezza non coincide con la propria casa, ma con la propria stanza. Il padre, la madre, non sono affidabili. Sono indispensabili, per sopravvivere sull’isola deserta. Ma non sono alleati. E in molti casi la vergogna, l’abbandono, il tradimento trasformano la paura in rabbia, che si riversa sulle figure genitoriali con gesti aggressivi e violenti.

La famiglia si discosta allora dal resto della società solo in parte. Ti nutre ma ti può anche avvelenare. Non è più garanzia di sicurezza. Alimenta ambiguità.

Così Michael Eigen descrive questo processo, che può attraversare tanto la famiglia quanto la società:

Nutrimento emotivo e veleni possono essere tanto strettamente intrecciati da rendere difficile, se non impossibile, determinare la differenza. Il problema può spingersi a un tale estremo che lo stesso nutrimento necessario a sostenere la vita risulti tossico, o, peggio ancora, che si impari a estrarre quanto possibile di nutrimento dai veleni disponibili.

Il problema è tanto sociale quanto personale. Siamo sommersi dalle tossine culturali e politiche. I veleni emotivi pervadono la televisione, i film, la parola scritta, gli atteggiamenti politici, la produzione economica. Siamo abituati a pascolare alla ricerca di bocconi di nutrimento in mezzo a montagne di spazzatura. L’altro aspetto dell’abbondanza è che siamo inondati anche da cose buone. Siamo allo stesso tempo contaminati e galvanizzati dagli aspetti nutrienti e da quelli tossici del corso degli eventi.[xxiv]

Torniamo all’Oikos e alla Polis evocati da Gianni Francesetti. Se ciò che mi nutre può anche avvelenarmi, se ciò che dovrebbe accogliermi mi respinge, dove posso posarmi? Il mio volo è interrotto dopo i primi battiti d’ala. Mi trascino nel nido, unico luogo sicuro, e mi nascondo in un angolo dove anche chi mi ha nutrito non può raggiungermi. Mi sottraggo allo sguardo. Mi sottraggo al sentire. Rimane il pensiero. E il pensiero, che spesso sfocia in intellettualizzazione e speculazione astratta, è un rifugio sicuro per l’Hikikomori. Ma si tratta di un pensiero fragile, senza corpo. E senza confronto. Illusione di controllo.

Pensiero

Sulla fragilità dello stesso atto del pensare, Luigina Mortari, in “Filosofia della cura”, scrive:

Per rendere tollerabile la nostra fragilità, molto confidiamo in quella cosa che fra gli esseri viventi desideriamo pensare solo nostra: l’attività di pensiero. È alla ragione che ci affidiamo per ridurre il tasso di fragilità (Nussbaum, 1996, p. 47). Questo abbiamo imparato agli inizi della cultura occidentale e il tempo dimostra che all’uso della ragione dobbiamo i guadagni nelle tecniche che permettono di migliorare la qualità della vita.

È vero che il pensiero può tanto: può conoscere le intricate relazioni di un ecosistema, ricostruire la mappa delle stelle che pendono dal cielo australe, penetrare nei segreti più intimi della materia e di questa sfruttare la forza per costruire mondi nuovi, progettare città, inventare poesie dove il sentire trova le parole per dirsi, e non ultimo comprendere la qualità dei vissuti di un altro e cercare con lei/lui sentieri di comunione. Il pensiero ha forza e potere di fare, e noi possiamo alimentarlo, orientarlo, piegarlo ai nostri obiettivi; ma neppure su di esso, nel quale tendiamo a identificare la nostra essenza e a confidare per affrontare la vita, abbiamo sovranità.

Non solo il pensiero è limitato e può farci cadere in errore, ma di colpo la razionalità faticosamente conquistata può dileguarsi e lasciarci in balia dell’altro che noi siamo. È facile esperire questa radicale provvisorietà delle forme dell’esserci, anche se conquistate con fatica, quando capita in modo del tutto inaspettato di avvertire che la mente insegue pensieri non cercati e non voluti, e rispetto a questo movimento involontario della mente nulla possiamo se non lasciare che accada. Anche la ragione, cui da sempre ci affidiamo per trovare il massimo possibile di sovranità sull’esperienza, è in potere della vita; quando, infatti, la mente cerca la quiete, una pausa dal pensare, continua a sentire l’inesauribile fluire dei pensieri ed emozioni che niente riesce a fermare. Come se la vita della nostra mente non fosse che un momento di un fluire più vasto che in essa risuona e rispetto al quale noi non abbiamo alcun potere. Se nella vita della mente sta la nostra essenza e se la qualità del nostro essere è la fragilità, allora la ragione non può che essere intimamente fragile essa stessa. Ricordiamo che in greco la parola che indica l’anima, psiche, indica anche la farfalla, che è metafora di quanto è più delicato e fragile.[xxv]

Il pensiero e l’illusione del controllo sono gli strumenti di cui si arma l’Hikikomori per far fronte alla minaccia dell’altro. Ma il pensiero, contrariamente a quanto sostenuto da Cartesio (e non solo…), non può che essere pensiero incarnato. E questa carne, questo corpo, vanno protetti. Corpo di cui si prova vergogna, perché non può sparire. Non è possibile liberarsene. Paradossalmente, l’Hikikomori vorrebbe essere libero dai legami avvelenati, libero dagli sguardi giudicanti, libero dalle aspettative familiari, libero da un corpo di cui ha perso il controllo (come accade ad ogni adolescente). Libero.

Ma non ha un Io sufficientemente strutturato per spezzare completamente le catene. Non ha le competenze per rendersi autonomo. Non ha attaccamenti sufficientemente solidi o evoluti. Non ha il coraggio di abbandonare tutto e andare incontro al mondo. La paura è più forte della rabbia.

Se così non fosse, sarebbe libero di scegliere.

Libertà

Scrive Paul Goodman, a proposito di libertà, in “Amo la libertà ma preferisco l’autonomia”:

Molti filosofi anarchici partono dalla voglia di libertà. Ma se la libertà è un concetto metafisico, o un imperativo morale, mi lascia freddo.

Non riesco a pensare per astrazioni. Il più delle volte, però, la libertà degli anarchici è un profondo grido animale o una supplica di natura religiosa, come l’inno dei prigionieri nel Fidelio. Si sentono esistenzialmente imprigionati dalla natura delle cose o da Dio, o perché hanno visto e patito troppa schiavitù economica, o perché sono stati privati delle loro libertà, o perché colonizzati interiormente dagli imperialisti.

Per diventare umani devono sbarazzarsi dell’imposizione.[xxvi]

Il giovane Hikikomori è in potenza un anarchico, in rivolta contro le ingiustizie, i soprusi, i condizionamenti sociali, le dipendenze familiari. Ma, come aggiunge poco dopo lo stesso Goodman:

L’anarchia richiede competenza e fiducia in sé stessi, il sentimento che parte del mondo mi appartiene.[xxvii]

Percorso inaccessibile per l’Hikikomori. La sola strada che gli rimane per esercitare questa libertà è, quindi, l’autoreclusione. La prigionia come scelta.

Nella nostra cultura impariamo presto che il bene più grande è la libertà; e per tutto il tempo della vita si va alla ricerca di modi dell’esserci che siano concrezione fenomenale di uno spirito libero; ma in questa ricerca si evidenzia la qualità paradossale e drammatica della condizione umana, perché a cercare la libertà è un ente che si trova nel bel mezzo della sua esistenza senza averlo deciso e con un progetto che deve sempre fare i conti con i limiti che la realtà pone, tra cui le intenzioni e i progetti degli altri.

Gli attimi di libertà sono momenti privilegiati dell’esserci perché nutrono l’anima di quell’energia vitale che rende sostenibile il mestiere del vivere; ma questi momenti, in cui ci sentiamo veramente vivi, fanno esperire l’altro della condizione umana: quel nostro trovarci a essere per tutto il tempo della vita costretti a misurarci con eventi e decisioni che non dipendono da noi ci evidenzia la qualità condizionata della vita umana.[xxviii]

Non siamo isole. I legami ci fondano, ci nutrono, ci possono avvelenare.

Miguel Benasayag e Gérard Schmit, nell’ambito di quella che chiamano una “clinica dei legami”, riprendono l’intreccio tra i concetti di fragilità e libertà:

La nostra società avvalla l’idea che tutto sia possibile e che la libertà sia strettamente legata al dominio: dobbiamo fare di tutto per vincere il destino. L’alternativa filosofica a questa tendenza dominante ritiene che la libertà consista nell’assumere il proprio destino. Questa formulazione farà sicuramente rizzare i capelli a molti nostri contemporanei, convinti che il destino sia l’esatto opposto della libertà.

[…] Il destino è quell’insieme complesso di condizioni, di storie e di desideri che si incrociano e si intrecciano determinando una singolarità, una persona. È costituito dai legami che creiamo e sviluppiamo liberamente. Per questa ragione la libertà non consiste nella scelta tra il dominio (di sé, degli altri e del destino) mediante la forza e la sottomissione, la debolezza. La libertà, conciliata con il destino, ci installa in una dimensione di fragilità. Questa fragilità non è né una forza né una debolezza, ma rappresenta una molteplicità complessa e contraddittoria da assumere nel suo insieme. Entrare nella fragilità significa vivere in un rapporto di interdipendenza, in una rete di legami con altri. Legami che non devono essere visti come fallimenti o successi, ma come possibilità di una vita condivisa.

D’altra parte, nella fragilità l’incertezza rispetto all’Io resiste, perché l’Io non è né un’etichetta, né un ruolo definitivo; al contrario, rimane sempre una possibilità, una potenza da ricercare, una singolarità che si costruisce. I legami non sono i limiti dell’io, ma ciò che conferisce potenza alla mia libertà e al mio essere. La mia libertà dunque non è ciò che finisce laddove comincia quella dell’altro, ma anzi comincia dalla liberazione dell’altro, attraverso l’altro. In questo senso si potrebbe dire che la libertà individuale non esiste: esistono soltanto atti di liberazione che ci connettono agli altri. È questa la dimensione, o meglio sono queste le dimensioni della fragilità. Una prospettiva filosofica di questo tipo può costituire la base di una psicoterapia ed è in grado, a nostro parere, di far fronte alle sfide della nostra epoca.

L’obiettivo dell’intervento psicoterapeutico è quello di aiutare l’altro, gli altri, ad assumere meglio le proprie possibilità e la propria libertà.[xxix]

Senza legami, quindi, viene depotenziato il mio essere. E la sola vera libertà sta nel definire quali legami privilegiare, attraverso quali legami connettermi agli altri e al mondo.

Nell’Hikikomori i legami sociali vengono vissuti come minaccia e i tentativi reiterati e forzati di coltivarli rischia di far emergere vissuti paranoici che contaminano anche legami ritenuti sino a quel momento “sicuri”. I legami familiari rischiano così di essere travolti da vissuti persecutori, soprattutto se accompagnati dal vissuto di “tradimento” per non essere stati in grado di offrire la necessaria protezione. Bruno Latour, filosofo della scienza e protagonista della scena etnopsichiatrica, così descrive il suo atteggiamento rispetto a questo tema:

Chi assassina più sicuramente? Colui che rifiuta di liberare l’alienato dai suoi legami mortiferi perché la libertà assoluta è un mito, o quello che pretende di disalienare davvero il soggetto infine pienamente autonomo e padrone di sé, ma senza dargli i mezzi di ricollegarsi a quei legami che sono in grado di fargli qualcosa? Qualche anno fa, la risposta sarebbe stata immediata: i primi, senza dubbio. Oggi, esito, lo confesso senza vergogna, e la mia indignazione esige d’ora in poi di combattere sui due fronti i reazionari ma anche i progressisti, gli antimoderni ma anche i moderni. Mi interessano e mi rassicurano solo coloro che parlano di sostituire degli attaccamenti a degli altri, e che, quando pretendono di disfare i legami morbosi, mi mostrano i nuovi legami salvifici, senza mai attirare l’attenzione sul soggetto padrone di sé, ora senza oggetto. Le parole liberazione, emancipazione, lasciar fare, lasciar correre non devono più comportare l’adesione automatica degli “uomini del progresso”.

Davanti alla bandiera sempre innalzata della libertà che guida il popolo, occorre selezionare con attenzione tra le cose stesse che generano attaccamento quelle che producono dei legami buoni e durevoli.[xxx]

Per gli Hikikomori, a un certo punto della loro traiettoria, gli unici legami buoni sono “legami a metà”. Legami unidirezionali. Per poter garantire la sopravvivenza del proprio essere devono sottrarsi allo sguardo dell’altro, con le implicazioni di reciprocità che abbiamo sottolineato in precedenza. E devono assumere il controllo dello scambio. Chiudersi in stanza e ricercare legami sicuri in rete è la soluzione migliore che riescono a trovare. Forzarli a uscire o privarli di internet non serve. Viene vissuto, giustamente come un attacco al loro essere. E il livello di scontro non può che aumentare. D’altra parte, privandoli di questi attaccamenti, cosa gli viene offerto in cambio? Quale destino gli viene imposto?

Destino

“Fare di tutto per vincere il destino”, oppure assumere il proprio destino, inteso quale “insieme complesso di condizioni, di storie e di desideri che si incrociano e si intrecciano determinando una singolarità, una persona”. Il giovane Hikikomori rimane sospeso tra queste due possibilità. Non riesce ad aderire ai comandamenti sociali, e nella corsa per vincere il destino inciampa ripetutamente. Non ha un ground sufficiente per poter assumere pienamente il proprio destino.

In epoca di migrazioni intensive e di fughe da guerre, violenze e povertà, la figura del profugo acquista sempre più centralità nella narrazione dell’epoca contemporanea, e sempre più ne acquisirà nel prossimo futuro con l’aumento esponenziale dei “profughi climatici”. L’Hikikomori, per certi versi, fa un movimento simile. È a sua volta un profugo climatico, laddove il clima da cui fugge è un “clima sociale” che mette in pericolo la sua vita. L’Hikikomori cerca rifugio dalle relazioni pericolose e avvelenate, da una società iper-richiedente, da una famiglia che non gli ha fornito i mezzi per affrontare il “fuori”, dal dolore delle emozioni, da un corpo che non controlla. Ma l’unico luogo sicuro che può accoglierlo è la sua stanza, da cui ha provato ad allontanarsi rimanendo ferito. L’Hikikomori chiede rifugio al proprio passato, alla propria infanzia, al piccolo mondo che conosce e che può controlla.

L’Hikikomori sembra accorgersi del “grande inganno”, la sua sensibilità gli permette di vedere attraverso la coltre di fumo della propaganda. Ma non ha gli strumenti per farvi fronte, per scegliere di andare allo scontro e ribellarsi. Non è in grado di assumere la propria fragilità, non riesce ad accettarla, a “incarnarla”. Il baratro che separa ciò che gli era stato promesso da ciò che sperimenta è troppo profondo. Non vi è libertà, là fuori! Non vi è spazio per progettarsi liberamente, non vi è tempo per sperimentarsi.

Così Byung-Chul Han, filosofo coreano, in un intervista apparsa nel 2015 su “Doppiozero”, illustra la condizione contemporanea a partire da una riflessione sul concetto di libertà e sul destino che ci viene imposto:

Oggi viviamo nell’illusione di essere liberi, ma non lo siamo affatto: vediamo infatti come la comunicazione, che si presenta come libertà, si rovescia in controllo. Comunicazione e trasparenza producono anche una costrizione al conformismo: oggi crediamo di non essere soggetti sottomessi ma liberi, crediamo di essere un progetto che si delinea in maniera sempre nuova, che si reinventa e si ottimizza. Il problema è che questo progetto, nel quale il soggetto sottomesso si libera, si rivela esso stesso una figura della costrizione. L’io come progetto sviluppa delle costrizioni interiori, per esempio nella forma della prestazione e dell’ottimizzazione sempre maggiori. Oggi viviamo in una fase storica particolare, nella quale la stessa libertà implica costrizioni. Per Karl Marx il lavoro conduce all’alienazione: il Sé viene distrutto dal lavoro. Attraverso il lavoro si viene alienati dal mondo e da se stessi: per questo ho sostenuto che il lavoro è una de-realizzazione del Sé. Oggi il lavoro assume la forma della libertà e dell’auto-realizzazione. Sfrutto me stesso nella convinzione di realizzarmi. Il sentimento dell’alienazione, qui, non sorge; così, questo è anche il primo stadio dell’euforia da burn-out. Mi butto entusiasticamente nel lavoro, fino a esserne annientato: mi realizzo morendo. Mi ottimizzo nella morte. Mi sfrutto volontariamente, fino a distruggermi.[xxxi]

Processo inverso a quello dell’alienazione e della de-realizzazione è, invece, il processo di individuazione che, a partire dalla fenomenologia husserliana e passando per l’analisi junghiana, definisce un percorso di ricerca individuale che, riprendendo le parole di Jung, favorisce “lo sviluppo dell’individuo psicologico come essere distinto dalla generalità, dalla psicologia collettiva. L’individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale.”[xxxii]

Se l’individuazione ha, quale premessa per la propria riuscita, un movimento di differenziazione, questo a sua volta implica un distacco. Ovvero la possibilità di abbandonare – riprendendo i concetti di Latour – gli attaccamenti imposti e scegliere i legami salvifici. In questo modo ci sottraiamo al dominio sociale omologante e “diventiamo ciò che siamo”.

Così descrive questo processo Umberto Galimberti, in riferimento ai processi di crescita dei giovani:

Il tema del “distacco” è un gran bel tema che incide profondamente nei processi di crescita dei giovani che si incontrano e si abbandonano con drammi talvolta da “fine del mondo”, dimentichi che la loro vita ha preso inizio proprio da un distacco, il distacco dalla madre. Può essere che l’amore, quello fisico intendo, sia la reiterazione sconfitta di ricomporre quel corpo a corpo, quell’essere nel corpo dell’altro come memoria di un’antica beatitudine che non ritorna: la nostalgia di quello che Freud chiama «sentimento oceanico». Ma la vita avanza e cresce a colpi di distacco. Distacco dal mondo genitoriale, dal mondo dei figli che si sono generati, dagli amori che abbiamo frainteso, quasi che la vita volesse allenarci a quell’ultimo distacco che è quello spasmodico amore di noi da cui, con la morte, ci congediamo. Questa è la nostra sorte di “individui”, dove il senso della divisione, della separazione, del distacco è già nella parola, per cui l’uomo, come ci ricorda Platone, è «simbolo» di un uomo, è «parte» che cerca l’altra parte per ricomporre l’antica unità. Con Platone penso che tutte le tensioni amorose siano il tentativo sconfitto di ricomporre questa unità originaria che ci è concessa per brevi istanti, sconvolgenti nel loro spasmo, affinché l’individuo possa consolare la sua radicale solitudine, che è poi la sorte che gli è stata assegnata per la sua individuazione. «Diventa ciò che sei» diceva Nietzsche. È bene che i giovani sappiano che l’individuazione, propiziata dal distacco, è l’unico destino degno della nostra vita.[xxxiii]

Ma se il distacco fallisce, i legami sono fragili e le appartenenze insicure, quale destino ci aspetta? Quando l’altro risulta irraggiungibile, ci inscriviamo in un destino dai contorni depressivi in cui il vissuto principale è il rimpianto. Ma se siamo noi che non vogliamo essere raggiunti dall’altro, una forma possibile è quella incarnata dall’hikikomori. La tensione verso l’altro sopravvive, ma ha bisogno di svilupparsi in totale sicurezza, in un ambiente controllato.

Terapia

Chi ha imboccato la strada dell’hikikomori ha fatto una scelta. Non pienamente consapevole. Non completamente libera. Ma ha sicuramente scelto di non stare più al gioco descritto poco sopra da Byung-Chul Han ed evocato nelle pagine precedenti da molti altri autori. Ha fatto la scelta per lui migliore. Forse l’unica percorribile in quel momento. Il sacrificio che ne consegue è però enorme. Decide di sacrificare l’altro. E quindi una parte importante di sé. Ma in questo modo riesce a mettersi in salvo.

Come fare, una volta che questo processo è stato avviato, a invertirne la direzione e portare il soggetto interessato a tornare sui propri passi, a riaffacciarsi al mondo, senza che i vissuti che abbiamo sin qui analizzato si ripresentino e diano vita a una mortifera coazione a ripetere?

A partire dall’analisi della letteratura di riferimento, dal quadro che un’attenta critica sociale dei nostri tempi ci restituisce e dalle esperienze dirette avute in questi anni, possiamo individuare alcuni elementi che sembrano avere un ruolo importante nel lavoro terapeutico con gli Hikikomori. Proviamo a elencare quelli più significativi e a darne una breve descrizione.

a) Perturbare il sistema. Data la situazione di stallo in cui si trova solitamente il nucleo familiare in cui si è manifestato (o si sta manifestando) un caso di hikikomori, il primo passo da fare per tentare di indurre un primo cambiamento consiste nel provocare dei cambiamenti nel sistema. L’Hikikomori e il nucleo familiare di appartenenza non hanno avuto alternative. La situazione in cui si trovano è l’unica figura che è potuta emergere dallo sfondo che è andato costituendosi negli anni. È stato raggiunto un equilibrio. Un equilibrio doloroso. Questo equilibrio va rotto. Occorre introdurre qualche elemento di novità, di rottura. Innanzitutto nella famiglia, che in misura diversa a seconda dei casi costituisce inevitabilmente parte del problema, ma va a comporre anche parte della soluzione.

b) Curare lo sfondo. Lavorare direttamente con il giovane Hikikomori può essere difficile, soprattutto se il fenomeno è presente da tempo e la situazione si è in parte sclerotizzata. Occorre quindi occuparsi dello “sfondo”. Occorre coinvolgere nel lavoro innanzitutto la famiglia, poi la scuola e per quanto possibile tutti quegli elementi che possono aver contribuito, anche in maniera diretta, all’emersione del fenomeno. In molti casi, l’avvio di un percorso terapeutico da parte del giovane Hikikomori andrebbe accompagnato – se possibile – da un percorso analogo da parte dei genitori, che hanno bisogno di un sostegno nell’affrontare la situazione e possono analizzare e tentare di modificare le eventuali dinamiche che possono aver favorito l’insorgere del problema.

Altro soggetto fondamentale da coinvolgere è la scuola. Nella maggioranza dei casi le prime avvisaglie di ritiro sociale avvengono in seguito a difficoltà legate alla scuola (si può trattare di un conflitto con gli insegnanti, di una delusione amorosa, di scarso rendimento, di episodi di bullismo). Ma raramente la scuola ha gli strumenti per individuare a tempo la difficoltà e gestirne le conseguenze. Diventa importante promuovere un lavoro di prevenzione, informazione, sensibilizzazione, affinché il personale scolastico conosca meglio il fenomeno e sappia come gestire i casi che si presentano. Stesso discorso va fatto rispetto alle istituzioni sanitarie.

c) Valorizzare la fragilità. Come abbiamo letto negli scritti di Borgna, la fragilità è costitutiva dell’essere umano. È quindi importante che il giovane Hikikomori possa entrare in contatto con le proprie parti fragili e scoprire che non è l’unico ad avere paura, a provare dolore, a sentire vergogna. Va rimodulata l’idea che lui sia diverso e unico. O meglio, va evidenziato che la sua diversità e la sua unicità sono condivise dall’intera specie. E che possono essere un punto di forza. Approfondire e condividere i discorsi di critica sociale – che compaiono in parte anche in questo scritto – può aiutare il paziente a dare un senso diverso al proprio dolore, può permettergli di dare una diversa collocazione all’origine del proprio disagio. Può essere utile, in determinati passaggi, sottolineare come la fragilità in realtà nasconda un’enorme “potenza” e mettere in evidenza come, con le sue azioni, il paziente sia riuscito a mettere in moto una macchina complessa (terapeuta, scuola, servizi sanitari, famiglia, terapeuti familiari, ecc.) che ruota attorno a lui.

d) Favorire l’autonomia. Il ritiro sociale dell’Hikikomori coincide spesso con una riduzione dell’autonomia del soggetto, che in molti casi era in parte compromessa anche prima del manifestarsi del problema. La relazione terapeutica può diventare uno spazio in cui sperimentare progressivi livelli di autonomia e fare tentativi protetti di “agire nel mondo”. Possono essere gesti semplici, come scegliere che vestiti comprarsi o cambiare taglio di capelli. Piccoli gesti quotidiani, ma potenzialmente rivoluzionari, in alcuni casi. E vedere di nascosto l’effetto che fa…

e) Rafforzare i legami sicuri. Per correre il rischio di affacciarsi fuori dal proprio rifugio e tentare di invertire il processo di autoreclusione, l’Hikikomori ha bisogno di sentire sotto i piedi un terreno sufficientemente solido. Il crollo delle certezze, il vissuto di fallimento, la vergogna, la sensazione di tradimento, hanno eroso il terreno su cui un tempo si appoggiava. Occorre quindi individuare, rattoppare, ricucire, rinforzare quei legami che un tempo erano sicuri e che adesso vengono vissuti con sospetto. Affinché questi legami vengano vissuti come fonte di sicurezza e fiducia occorre, però, fare un lavoro di de-idealizzazione e messa in prospettiva. Occorre lavorare sui grigi, allenando lo sguardo a riconoscere e valorizzare le sfumature. Occorre, lentamente, esplorare il mondo degli altri, allenando il muscolo dell’empatia. In questo modo, i legami a cui affidarsi saranno più sicuri e forti. Perché più reali.

f) Valorizzare i processi di cura. Affinché l’Hikikomori impari a prendersi cura di sé (azione complessa che può essere suddivisa in numerose sotto-azioni: imparare a proteggersi, imparare a guardarsi e riconoscersi, imparare ad apprezzarsi, imparare a volersi bene, imparare a sbagliare, ecc.), a volte può essere necessario proiettare all’esterno questa spinta e favorire il coinvolgimento in attività di volontariato e di cura degli altri (può essere semplicemente la cura di un animale che gli viene affidato, servire a una mensa popolare, aderire a iniziative di difesa della natura o dei diritti). Sono, questi, movimenti che in molti casi sorgono spontaneamente e che vanno incoraggiati e sostenuti.

g) Sperimentare il confronto. Il setting terapeutico deve essere vissuto come spazio sufficientemente sicuro per poter sperimentare – in maniera graduale – relazioni non confluenti con una percentuale di conflittualità crescente, ponendo regolarmente l’attenzione sull’analisi del processo e dei vissuti dei soggetti coinvolti. Per l’Hikikomori il conflitto è infatti pericoloso, si tramuta inevitabilmente in guerra, o perlomeno questo è il timore incontrollato che lo costringe a rifuggire da relazioni contraddistinte da reciprocità.

Questa lista non è esaustiva. Vi sono, ovviamente, altri elementi che possono emergere lavorando con il fenomeno hikikomori. Riprendendo il titolo di un libro di Erving Polster, “Ogni vita merita un romanzo”. Non vi sono quindi due storie uguali o sovrapponibili. La complessità delle relazioni umane è tale che permarrà sempre una zona di mistero nel rintracciare le variabili che determinano la traiettoria di una vita. La complessità e la molteplicità sono elementi costitutivi del nostro essere. E non può esserci cura, trattamento o terapia che possa prescindere da tale molteplicità.

Benasayag e Schmit riprendono parte degli elementi qui elencati e propongono una clinica che aiuti le persone a “stare” nelle situazioni che incontrano, a partire proprio da questa molteplicità:

Questa clinica della fragilità si rivolge quindi all’esperienza di vita, e non alle idee. Poiché è il vissuto a rivelarci che non siamo individui isolati e che la nostra libertà non dipende dal dominio del mondo che ci circonda e delle nostre passioni. La fragilità ci dice che possiamo assumerci come molteplicità, come singolarità costituite attraverso la molteplicità e per la molteplicità. Infatti, lo ripetiamo, non siamo esterni alle situazioni che viviamo e la nostra intimità più profonda si costruisce attraverso di esse. Siamo, profondamente, le situazioni nelle quali viviamo.[xxxiv]

Eugenio Borgna, riportando e commentando alcune riflessioni di Simone Weil sulla fragilità dell’uomo, riprende a sua volta il concetto di molteplicità e sottolinea come essa sia profondamente intrecciata con il destino dell’uomo, con il suo corpo, la sua anima, la sua socialità. Così facendo, ci indica implicitamente il percorso da seguire per prenderci cura di questa fragilità e trasformarla in risorsa:

”La nostra carne è fragile: qualsiasi pezzo di materia in movimento può trafiggerla, lacerarla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre uno dei suoi congegni interni. La nostra anima è vulnerabile, soggetta a depressioni immotivate, penosamente in balia di ogni genere di cose, e di esseri altrettanto fragili o capricciosi. La nostra persona sociale, da cui dipende quasi il sentimento dell’esistenza, è costantemente e interamente esposta al caso”.

Ma ciascuna di queste tre parti del nostro essere è l’una intrecciata all’altra. “Il centro stesso del nostro essere è legato alle sue tre parti con fibre tali da risentire delle ferite di ciascuna, anche se non gravi, fino a sanguinare. In particolare è come se ogni cosa che sminuisce o distrugge il nostro prestigio sociale, il nostro diritto alla considerazione altrui alterasse o sopprimesse la nostra stessa essenza; fino a questo punto abbiamo per sostanza l’illusione.”[xxxv]

Se le nostre tre parti – carne, anima e persona sociale – sono così intrecciate l’una all’altra, allora occorre lavorare contemporaneamente su più piani per favorire un cambiamento che ridia “presenza” al soggetto. Solo così la “crisi della presenza”, da cui siamo partiti all’inizio di questo percorso polifonico attorno al fenomeno hikikomori, può essere affrontata, capita e in molti casi risolta, al fine di poter tornare ad “agire nel mondo”.

Volo

Il volo interrotto.

Quest’immagine riassume in maniera efficace la condizione di chi oggi viene considerato un Hikikomori.

Un ragazzo che si prepara ad allontanarsi dagli spazi sicuri della propria famiglia, che comincia il processo di avvicinamento al mondo – e quindi all’altro – e che spiccato il balzo, dopo i primi battiti d’ala, si trova a precipitare a terra. Il mondo lontano dal nido è pericoloso. Il destino rischia di essere quello del brutto anatroccolo. L’unica soluzione è il ritorno al nido.

Chi ha avuto esperienze dirette con persone in hikikomori riconoscerà nei versi che seguono assonanze con il profilo, le caratteristiche, i movimenti di questi soggetti. Vysotskij descrive in realtà la propria condizione di artista sotto la dittatura sovietica, l’impossibilità di essere pienamente se stessi a causa delle censure, degli attacchi, delle violenze del regime. Canta di un fallimento, o meglio di una riuscita impossibile. Canta di un incontro mancato, tra un essere umano con le sue imperfezioni, la sua sensibilità e le sue paure e un mondo incapace di accoglierlo e sostenerlo.

Questi versi assumono quindi un significato particolare, se li leggiamo avendo quale sfondo il fenomeno hikikomori e il vissuto di chi lo attraversa.

Frutto acerbo. Destino. Fuori tono. Il gusto neanche lo sentì. Discussioni oziose. Si fermò neanche a metà. Non volò. Servitore di uno stile puro. Non ci andò là. La cavalcata non finì. Non volerà.

E per finire, chi pagherà…

Perché c’è un prezzo da pagare. E a pagare non è solo la “vittima”. Il prezzo da pagare è anche, e soprattutto, un prezzo sociale. Le ricadute di questo fenomeno non colpiscono unicamente il singolo individuo, ma coinvolgono il contesto in cui l’individuo cresce e viene cresciuto. Coinvolgono tutti i livelli in cui questo “sfondo” si articola. Coinvolgono la società, la scuola, la famiglia, il sistema sanitario. Coinvolgono gli altri e coinvolgono noi. E ci richiamano a un’assunzione di responsabilità.

Qualcuno scorse il frutto acerbo ma
poi scosse il tronco e il frutto cadde,
e questo è il canto di chi non cantò,
e di aver di voce non si accorse,
mai venne a patti con il suo destino,
lui con il caso non aveva intesa
ed era fuori tono il suo violino
e la sua corda troppo tesa,
ed intonò la voce in la,
la nota non andò più in la,
ma questo accordò poi non risuonò,
non ispirò, non provocò nessuno,
di certo il cane non reagì, il gatto pure.
È buffo sì, buffo davvero,
ma provò a scherzare ma non ci riuscì,
nemmeno il vino lo assaggiò,
il gusto neanche lo sentì.
E si arrischiava in discussioni oziose
ma molto piano e con maggior timore
stillava l’anima attraverso i pori
con mille gocce di sudore, di sudore,
e sul quadrato cominciò il duello
senza però nessuna idea di qualche
regola, trucco o tranello,
l’arbitro poi non dava il via
e lui puntò l’estremità
ma si fermò neanche a metà.
Non capì il falso né una verità,
lei fu la sola e neanche lei amò del tutto mai
non amò mai, non amò mai,…
È buffo sì, buffo davvero ma
andò più in su ma non volò
soltanto un poco si affrontò
mancò ciò che mancò, sempre mancò, tutto mancò.
Fu il servitore di uno stile puro,
dico sul serio, non è falsità:
scriveva versi sulla neve
e poi la neve svanirà, si scioglierà,
ma continuò,
la grande nevicata gettava
versi sul tappeto lieve,
lui rincorreva a bocca spalancata
cristalli di grandine di neve.
E lui salì sul suo landò,
ma non ci andò là, non ci andò là, non ci andò
e non riuscì la fuga, il volo,
la cavalcata non finì
il toro – sua costellazione
nella via lattea – muggì.
È buffo sì, buffo davvero ma
mancò la nota dopo il la,
per una nota d’un secondo solo
non volerà, non volerà…
È buffo sì, che storia buffa e amena,
certo per me, per voi non so.
Trotta il cavallo e il merlo plana.
Pagherà, chi pagherà, chi pagherà…

(Il volo interrotto, di Vladimir Vysotskij)[xxxvi]

Bibliografia

Aime M. e Pietropolli Charmet G., 2014
Bagnato K., L’hikikomori: un fenomeno di autoreclusione giovanile, Carocci, Roma, 2017
Benasayag M. e Schmit G., L’epoca Delle Passioni Tristi, Feltrinelli, Milano, 2004
Berger J., Questione Di Sguardi, Il saggiatore, Milano, 1998
Borgna E., La Fragilità Che È In Noi, Giulio Einaudi, Torino, 2014
Consigliere S., Antropo-logiche, Edizioni Colibrì, Milano, 2014
Coppo P., Le ragioni del dolore, Bollati Boringhieri, Torino, 2005
De Martino E., Il mondo magico, Bollati Boringhieri, Torino, 1973
Doi T., Anatomia della dipendenza, Raffaello Cortina, Milano, 1991
Eigen M., Cibo Tossico, Astrolabio, Roma, 2003
Francesetti G., Attacchi di panico e postmodernità, Franco Angeli, Milano, 2005
Goodman P., Amo la libertà ma preferisco l’autonomia, Libertaria n.1 (rivista), 2000
Han B.-C., Elogio della distanza (intervista di Federica Buongiorno), Doppiozero 28-09-2015
Jung C. G., Tipi Psicologici, Bollati Boringhieri, Torino, 1977
Latour B., Fatture/Fratture: Dalla Nozione Di Rete A Quella Di Attaccamento, I Fogli Di ORISS n. 25, 2006
Mortari L., Filosofia Della Cura, Raffaello Cortina, Milano 2015
Recalcati M., Cosa resta del padre, Raffaello Cortina, Milano, 2010
Ricci C., Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, Franco Angeli, Milano, 2008
Robine J.-M., Il rivelarsi del sé nel contatto, Franco Angeli, Milano, 2006
Sagliocco G, Hikikomori e adolescenza, Mimesis, Milano, 2011
Saito T., Intervista (a cura di Claudia Pierdominici), psychomedia.it, 2008
Sartre J.-P., L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 2008

 

Note

[i] Nel teso, al fine di evitare possibili confusioni, scriverò Hikikomori con l’iniziale in maiuscolo quando farò riferimento agli individui e hikikomori con l’iniziale minuscola quando farò riferimento al fenomeno.
[ii] Carla Ricci, 2008, p.25
[iii] Questo il sito dell’associazione, ricco di materiali e di spazi di confronto: http://www.hikikomoriitalia.it/
[iv] Ernesto De Martino, 1973, p.XXVII
[v] Stefania Consigliere, 2014, p.13
[vi] Karin Bagnato, 2017, p.22
[vii] Piero Coppo, 2005, pp.138-140
[viii] Massimo Recalcati, 2010, p.24
[ix] Gianni Francesetti, 2005, p.84
[x] Gianni Francesetti, 2005, p.40
[xi] Gianni Francesetti, 2005, p.165
[xii] Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet, 2014, pp. 14-15
[xiii] Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet, 2014, pp. 88-89
[xiv] Tamako Saito, 2008
[xv] Ernesto De Martino, 1977, pp. 95-96
[xvi] Stefania Consigliere, 2014, p.13
[xvii] John Berger, 1998, pp. 9-11
[xviii] Jean-Paul Sartre, 2008, pp.323-324
[xix] Giulia Sagliocco, 2011, pp.19-20
[xx] Eugenio Borgna, 2014, p. 3
[xxi] Eugenio Borgna, 2014, pp.5-9
[xxii] Jean-Marie Robine, 2006, pp.83-90
[xxiii] Takeo Doi, 1991, p.112
[xxiv] Michael Eigen, 2003, p.9
[xxv] Luigina Mortari, 2015, pp.58-59
[xxvi] Paul Goodman, 2000
[xxvii] Ibidem.
[xxviii] Luigina Mortari, 2015, pp.53-54
[xxix] Miguel Benasayag e Gérard Schmit, 2005, pp.104-105
[xxx] Bruno Latour, 2006, pp.15-16
[xxxi] Byung-Chul Han, 2015
[xxxii] Carl Gustav Jung, Tipi Psicologici, p.501
[xxxiii] Umberto Galimberti, 22/06/2006
[xxxiv] Miguel Benasayag e Gérard Schmit, 2004, pp.106
[xxxv] Eugenio Borgna, 2014, pp. 85-86
[xxxvi] Vladimir Vysotskij, 1973

Ti potrebbe interessare anche...