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Un ritratto al giorno: 365STRANGER

Un ritratto al giorno: 365STRANGER
Un progetto di Davide Buscaglia al confine tra psicologia e fotografia

Davide Buscaglia, Psicologo, specializzando in Psicoterapia della Gestalt presso la Scuola Gestalt di Torino, appassionato di fotografia e storytelling. Ha iniziato il 2015 con un proposito: incontrare, conoscere, fotografare e raccontare uno sconosciuto al giorno, tutti i giorni. Un anno in relazione con lo sconosciuto. Lo fa dal Primo Gennaio 2015: il 31 Dicembre avrà 365 sconosciuti in meno, 365 strangers in meno, 365 incontri in più. Si tratta di un viaggio personale e sociale che attraversa identità e relazioni: il suo obiettivo è quello di raccontare un anno di incontri, riflettendo sulle conseguenze psicologiche e identitarie che nascono dagli stessi, affrontando le tematiche personali e sociali che di volta in  volta incontrerà.

365strangers è un progetto fotografico, perché attraverso la fotocamera incontro persone per strada. Persone che non conosco, persone che in qualche modo mi colpiscono. E nel frattempo imparo, cerco di migliorare il contatto, con la macchina, con il soggetto, con il contesto. Se lo scatto non funziona, cerco di capire dove ho sbagliato, e aspetto domani, per riprovare. Non baro, non ho seconde chance. È un progetto fotografico perché il 31 dicembre avrò 365 foto, 365 sconosciuti in meno: e qui entra in gioco la Psicologia.

È un progetto psicologico perché ha profonde implicazioni identitarie, personali e relazionali, perché la fotografia ci confronta con l’immagine che abbiamo/diamo/crediamodiavere di noi stessi. Perché ogni giorno entro in contatto con l’Altro, perché ogni giorno ho un obiettivo, e per raggiungerlo devo chiedere aiuto a quell’Altro, in un incontro dalle valenze terapeutiche se è vero che, come insegna la Teoria della Psicoterapia della Gestalt, alla base del benessere c’è un buon contatto relazionale. È anche e soprattutto un percorso di crescita personale che mi coinvolge intimamente, confrontandomi con quelle che sono le tematiche che mi riguardano da vicino.

Un anno in relazione con lo sconosciuto: spesso mi viene chiesto cosa mi spinga a scegliere uno sconosciuto piuttosto che un altro. A volte lo stile, altre volte il volto, altre volte mi lascio guidare dalle sensazioni e scelgo dirigendomi verso quello che potenzialmente rappresenta un nuovo e unico episodio di contatto. Descritto così sembra essere un orientamento estetico nell’accezione del termine appresa in formazione gestaltica: attraverso i sensi.

È un po’ come se raccontassi e conoscessi me stesso attraverso l’incontro, il racconto e la conoscenza dell’Altro, è un profondo lavoro su di me che si sviluppa in relazione.
Al di là dell’intimo bisogno di esprimere me stesso sono due le tematiche con cui mi sono immediatamente confrontato: quella del rifiuto e quella della dipendenza dall’Altro nella soddisfazione di un bisogno personale. Inizialmente provavo ansia, mi tremavano le mani, temevo molto il possibile “no”. Poi, col tempo, ai “no” ci si abitua, non vengono più introiettati come oggetti esterni e indigesti e soprattutto i “sì” rappresentano una quotidiana fonte di gratificazione per cui ho imparato valere la pena esporsi.

Al di là di questo, ciò che mi sorprese immediatamente dopo i primi scatti furono due aspetti connessi agli incontri: l’intimità del contatto e la reciprocità degli scambi. Tornando a casa dopo l’incontro osservavo lo scatto e rimanevo profondamente colpito da ciò che provavo. A volte commosso. Provavo affetto, per ognuno di loro. Era un po’ come se le persone incontrate mi avessero donato una parte di loro, ed ero grato. In questo caso è vero che la fotografia non si fa, ma si prende. È un gesto intimo, puro, poetico. E così ho scoperto che Fotografare significa entrare in relazione, in contatto con le persone. L’ho sperimentato sulla mia pelle. O sulla nostra pelle. Non sono centrato sui soggetti che fotografo, non ho interviste, non sono del tutto centrato su di me: sono in una zona di confine tra me e loro. È qui che ci incontriamo, in quello che la Gestalt definisce confine di contatto. Non posso affermare che ciò avvenga ogni giorno; quando accade però ciò che si crea è un’esperienza nutriente e arricchente. Per me stesso e per chi incontro. E in questi casi le fotografie funzionano di più.

Ad integrazione delle fotografie allego una descrizione del vissuto emotivo e relazionale degli incontri. L’intento è quello di focalizzare il vissuto relazionale, emotivo e umano degli incontri. Cosa mi ha colpito? Come mi sono sentito con lui/lei? Che tematica si è attivata durante l’incontro? Cosa ho contattato? Cosa è stato importante? Cosa ho imparato da questo incontro? Con che cosa rimango?

Sono queste alcune delle domande che mi pongo una volta terminato l’incontro. Ed è attraverso queste riflessioni che ogni giorno imparo qualcosa di nuovo su di me, e su chi mi sta intorno.
In fin dei conti sappiamo chi siamo attraverso gli occhi delle persone che ci circondano.


Savona. Lui è Andrea. Mi colpisce lo sguardo cupo e penetrante, sembra arrivare da lontano diretto verso qualche città. Mi ricorda un mio formatore. Noto lo uno zaino verde sulle spalle, lo immagino artista di strada, oppure pescatore di ritorno dal mare. Glielo dico e mi risponde divertito che lì dentro ci sono i teli da mare e il pallone di sua figlia. Vive a Modena e lavora come informatico e web designer: ”…sono un blogger di vecchia data. Alcuni anni fa insieme ad amici abbiamo aperto il blog who killed bambi: una raccolta di progetti che indagano la morte, il sangue, e gli scheletri.” La cosa curiosa è che questo blog lo conoscevo. “Non nutro un amore particolare per la morte, il sangue o gli scheletri, ma apprezzo i progetti artistici provocatori…e sì, mi interessa il modo in cui queste tematiche vengono percepite e rappresentate dalle menti creative contemporanee.” A distanza di giorni, rimane ben definita in me la sensazione di aver incontrato un uomo preparato con molti interessi e attitudini, in grado di ottenere eccellenti risultati nei progetti in cui investe. Vienimi a trovare, Modena ha un sacco di cose interessanti.”

Savona. Lei è Angela. L’ho vista e ho sentito che doveva essere lei. Insegna grafica pubblicitaria, conferma di essere la Professoressa di alcuni strangers. La cosa mi piace, professori e alunni insieme nello stesso progetto. Vive a Savona da qualche anno, e tra qualche giorno anche lei parte per Santiago de Compostela. E per l’ennesima volta contatto quella parte di me che brama questo viaggio e quella che invece lo contrasta. Ma lo farò, lo so. Sono un po’ preoccupata, è la prima volta che viaggio da sola. 30 tappe in 35 giorni. Sento eccitazione e paura in queste parole. E a pensarci bene somiglia a quello che provo io quando penso a questo viaggio. Mi colpisce un contrasto in lei, in alcuni momenti sembra molto giovane, in altri ha uno sguardo adulto, responsabile e un po’ stanco. La sensazione è che queste parti le facciano spesso compagnia, sono davvero evidenti per me. E rimango incuriosito da queste sfumature. Faccio fatica a meditare, soprattutto se mi viene chiesto di non pensare a niente.

Torino, Via Garibaldi. Fabrizio, musicista. Impossibile non notarlo. Sapeva stare di fronte all’obiettivo. Incontro davvero piacevole. Per ora la foto di cui vado più fiero. Grazie Fabrizio!

Lui è Guredev. Conosce un po’ l’Italiano e un po’ l’Inglese, così l’incontro assume una modalità originale. Ci incontriamo nel ritmo lento di parole scandite ad una ad una e soprattutto in scambi di sguardi e gesti. Al di là del volto, della camminata molleggiata e dell’atmosfera che trasporta con sé mi colpiscono alcuni suoi oggetti. Indico il braccialetto d’acciaio senza apertura, e mi spiega che ce l’ha da quando era bambino: “mi aiuterà nella vita a tenere distanti le cose nocive: alcol, tabacco, uova, carne di maiale.” Indico il coltellino d’acciaio lucente che ha legato alla cintura. “…devo usare in caso di difesa”. Sono simboli religiosi, come il turbante e la barba. “…non l’ho mai tagliata, e non lo farò mai. Crescerà naturalmente per sempre.”  Lavora nel maneggio della stranger incontrata alcuni giorni prima, ha lasciato l’India 4 anni fa ed è alto poco meno di 2 metri. “…In India ci sono mia moglie e mio figlio. Un giorno mi raggiungeranno.” Mentre me lo dice, sorride appena appena e da in piedi incrocia le gambe portando le braccia dietro la schiena. Mani congiunte. L’energia che emana è dolce e tenera, sembra dirmi: ecco: sono questo. Un po’ come fanno i bambini orgogliosi di fronte ad altri sguardi. Siamo sul non verbale, lo noto più di altre volte e mi viene voglia di provare a comprendere meglio l’effetto che quella posizione ha su di me. Così la faccio mia. Sa di timidezza, di protezione, di brio, ma anche di voglia di essere visti. Tutte cose mie, non le ho esplorate con lui.

Milano. Lui è Ionica. Anche lui è un camionista e anche lui è seduto nella cabina sorseggiare una birra, ma a differenza dello stranger di qualche giorno fa non parla inglese. Per niente. Passiamo subito ai gesti e con un sorriso mi fa capire che sì, per lui è ok essere fotografato. È rumeno, in viaggio verso casa. È partito dal Portogallo. Quando gli chiedo da quanti anni viva questa vita, cerca di dirmelo in inglese, ma non trova il numero giusto. Così a fatica si china sulle proprie gambe e con il tondo indice della mano destra traccia sula calce bianca dell’asfalto un faticoso 18. Poteva mimarlo, mostrarmi prima un dito poi otto, dirmi one e poi eight, ma ha scelto quel modo. E a pensarci bene, rende maggiormente l’idea della fatica, della voglia di fermarsi un po’. 18 anni. Chissà quanti km. Non gliel’ho chiesto, credo avrebbe tracciato per troppi metri la linea bianca.

Torino. Lui è Jesus. Si aggira per le strade di Torino da alcuni giorni. Ogni giorno incontra lo sguardo di sconosciuti, e mantiene il contatto. Se distogli lo sguardo per poi ritornare una volta ripreso coraggio, ti accorgi che i suoi occhi sono ancora lì ad aspettarti. Così, per tre volte. “…E se vogliono, vengono da me. Lo faccio per entrare in contatto con le persone, la gente non lo fa più.” Abbiamo lo stesso obiettivo, ma due strumenti diversi: io la macchina fotografica, lui l’iconografia di Jesus. Mi allontano commosso e soddisfatto, certo di aver conosciuto e riconosciuto in un estraneo qualcuno e qualcosa di molto familiare. “Non sono solo.”

Calizzano. Lei è Lina. La noto mentre si alza dal tavolo del ristorante. Ha appena finito di mangiare, sulla tovaglia ci sono gli avanzi di chi ha concluso il pasto da poco e lei lo riordina. Prende la bottiglia e lentamente la sposta verso il centro, poi accoppia i due tovaglioli stropicciati lasciati ai lati opposti del tavolo. Ogni cosa al suo posto, nel mezzo. Quel tovagliolo, lasciato lì in disparte, da solo dopo aver compiuto il proprio dovere proprio non le piaceva. Ha 92 anni, è brillante e piena di energia. Le spiego del progetto e prontamente mi risponde “…che bello, oggi hai scelto me! Il mio nome è Lina, diminutivo di Carolina, ma pochi anni fa ho scoperto di avere anche un altro nome: Serafina. Come l’Arcangelo. Sono nata in un Paese qui vicino, ma a 11 mesi mio papà è morto. Mia mamma non ce la faceva a crescerci tutti, così a due anni sono stata adottata. È stata la mia fortuna sai?”  Me lo dice sorridendo con uno sguardo birichino che sembra aggiungere alle parole l’importanza di un pericolo scampato. “…alcuni anni fa mi hanno portata nella casa di riposo. Ma non faceva per me, e me ne sono andata. Se fossi rimasta lì oggi non sarei qui.” Le credo. “…a volte ci torno in quella casa di riposo, ma per fare compagnia agli anziani che vivono lì.”

Sziget, Budapest. Lei è Lisa. Cercavo un volto da fotografare tra gli alberi, in una delle zone boscose dell’isola. E incontro lei, che forse ci vive in quei boschi. I suoi colori, i suoi occhi…potrebbe essere la custode di qualche pozione magica, di qualche segreto del bosco: una strega moderna. Ha un lungo vestito verde smeraldo e anfibi neri. Poi scopro che in quei boschi non ci vive, ma è di Bari. Si trova allo Sziget per accompagnare il fidanzato fotografo. E che nel futuro, una volta definite alcune variabili, ci sarà Londra, oppure Vancouver. Lei è Lisa ma in realtà si chiama Isabella. Quando l’ha scoperto era già grande. Ed è stato uno shock.

Savona. Lui è Luca. Fa il postino e ha due braccialetti: su uno c’è scritto Brussels, sull’altro senza lavoro non c’è futuro. Sono regali dei suoi genitori. Mentre passeggiamo sotto i portici di Via Paleopaca è forte il senso del dovere che trapela fra le sue parole. “…mi alzo tutte le mattine all 04:50, prendo il treno che mi porta a Mondovì e alle 16:30 torno indietro. Ho 22 anni, non posso permettermi di essere stanco.” Mi colpisce la serietà con cui si racconta, in un attimo mi ritrovo a pensare a chissà quale traiettoria l’abbia portato sin qui. Una donna molto saggia alcuni giorni fa mi ha detto che le strade per arrivare alle persone sono infinite. E così torno al braccialetto: è quella la chiave per comprendere parte di quella sensazione iniziale. “…mio papà è un dipendente della Tirreno Power, ormai in cassa integrazione. Non è proprio un bel periodo questo, forse anche per questo ho deciso di lasciare l’Università e iniziare a lavorare.” Mentre me lo dice lo immagino insieme con la sua famiglia intorno al tavolo, uniti alla ricerca della forza e del sostegno per affrontare insieme una sfida difficile. Sembra esserselo trascinato dietro quel ricordo, riaffiora tra un battito di ciglia e l’altro. Me ne vado e ho in testa questa frase: rimboccarsi le maniche. In qualche modo credo lo sappia fare bene.

Calizzano. Lui è Makan. Da diverso tempo un gruppo di profughi ospitati nella struttura del paese trascorre le giornate seduti sotto un nocciolo dalle foglie bordeaux. Oggi noto lui. Ha le cuffie, come gli altri, ma mentre mi avvicino nasconde il proprio volto sotto il cappuccio della felpa. Ridendo timidamente ed evitando di guardarmi mi dice “no, oggi ho le ciabatte.” Gli spiego che non importa, che per il genere di foto che faccio io avere le ciabatte o le scarpe di Prada non fa alcuna differenza. Parla solo francese e accetta, il suo sì mi arriva grazie a un suo amico che sta imparando l’italiano. Viene dal Mali, dove lavorava come commerciante in ambito ortofrutticolo. Sono lì, pronto per fotografarlo, quando si volta verso l’amico…iniziano a discutere, e inizio a pensare che magari sta cambiando idea, sta diventando buio e in lontananza si sente un temporale. E mentre mi trovo bloccato fuori da quella discussione il suo amico gli si avvicina, gli apre leggermente la cerniera della felpa, gli sposta le cuffie e gli fa cenno che ok, così può andare. Voleva solo essere più pronto per la foto. Ci incontriamo così, nel freddo anticipo di una giornata autunnale che presto arriverà. Per me è ancora tempo di t shirt, lui in più ha la felpa. E trema di freddo.

Savona. Lei è Micaela. Sono più agitato del solito mentre mi avvicino e le racconto del progetto. Ha uno stile forte, impossibile da non notare, ma lo indossa con delicatezza.  È questo che mi colpisce e per questo tengo particolarmente al suo sì. Se ne accorge, me lo fa notare e ci ridiamo insieme. Fa la parrucchiera. “…Non è la prima volta. Che mi fotografano e che chi mi chiede qualcosa è agitato”. Mentre me lo dice sorride, è un sorriso pieno e aperto che mi fa sentire accolto. Mi colpisce l’energia frizzante che sento durante l’incontro. È vitale e non sento più l’agitazione.

Lei è Nadia.  È la mia stranger numero 200. L’ho incontrata quando la mia pausa stava terminando, ho sentito che era lei. Ho solo 5 minuti, ma ne voglio di più. Così mi avvicino e le spiego la situazione. Da questo momento in qualche modo la mia vita cambia. Come se questo incontro mi avesse permesso di fermarmi, salire su uno scalino, e riprendere il cammino. Prende la mia mano destra tra le sue, fresche nonostante i 40gradi, e con voce celestiale mi dice: non c’è bisogno di un appuntamento, ci incontreremo, ne sono certa. Sorride, e con il marito se ne va. E io in qualche modo sentivo che aveva ragione. Ero a Barolo, intorno a noi 100 mila persone. Forse di più. Lavoro per 3 ore, esco e vado da lei. Dopo 4 minuti siamo insieme. Aveva ragione lei e io a chiudere gli occhi e a seguire la musica. “…generalmente non mi faccio fotografare, ma prima, quando ci siamo visti, c’è stato un incontro tra anime. Me ne sono accorta subito. Sai non sono curiosa delle persone io, mi basta ciò che vedo. Io sono ciò che vedi, ciò che vedi non è altro che la mia anima, che in viaggio da vite precedenti è arrivata sin qui. Ciò che ho visto in te era buono, mi hai commossa.” Essere visto da lei in questo modo pulito, puro e essenziale, mi commuove; mentre sto con lei mi accorgo di essere accolto dalle sue parole, dalla sua freschezza e dalla sua energia. E un po’ le voglio già bene. Poi, mentre parlo con il marito, come niente fosse lei mi rinfresca il viso con uno spray al profumo di rose, che mi arriva come una carezza. Ci salutiamo con un lungo abbraccio, e mentre mi faccio spazio tra decine di corpi bollenti mi rendo conto di sentire strani e frizzanti brividi freschi. E ho le lacrime agli occhi. Immenso.

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